Amore e scandalo

Angela Matassa

Hanno compiuto un attento lavoro di scelta e selezione Luisa Guarro e Antonio Mocciola per creare la drammaturgia di L’immoralista, lungo scandaloso racconto scritto da Andrè Gide nel 1902 e male accolto da pubblico e critica. Lo stesso autore non credeva nell’opera di cui fece stampare solo trecento copie, fors’anche perché in realtà fortemente autobiografico. Egli stesso, in seguito ammetterà di “avere dentro di sé un germoglio di Michel”.

Sulla scena del Teatro TRAM di Napoli, prende corpo e vita anche Marceline, la sposa che nel romanzo vive attraverso le parole del marito. Da monologo, dunque, a dialogo tra i due, che appena sposi partono per il viaggio di nozze.

Due personaggi, due sessi, due etiche. Due opposti. Marceline è la perfetta incarnazione della morale dell’epoca: religiosa, borghese, con un ruolo ben definito. In lotta con l’immoralità del marito, al quale si dedica completamente. “Mi occupo io di tutto, del viaggio, dei preparativi, degli spostamenti…”. Vero angelo custode quando lui si ammala di tisi, riuscirà a guarirlo con le attenzioni e non solo.

La regia si serve di pochi oggetti di scena, che caratterizzano la vita della coppia: valigie, bauli, sedie, un tavolo, un’immaginaria finestra che si aprirà, quando saranno in Africa, sui campi e sul gruppo di bambini di colore che risveglieranno in Michel sopite passioni.

Il tema della pedofilia, è evidente ma non c’è compiacimento né giudizio. Il testo, che rispetta anche lo stile e la lingua del futuro premio Nobel, non si sofferma più del dovuto, per lasciar intendere e colpire lo spettatore, quando il trasgressivo Michel parla dei corpi nudi dei bimbi di colore, che lo attraggono e ne apprezza la bellezza delle caviglie, dei polsi, della lingua “rosa come quella di un gatto”.

Pur avendo sposato Marceline per compiacere il padre, Michel a poco a poco l’apprezza e l’ama per la dedizione, per la profondità e ne comprende il conflitto morale. “Ti guarirò con la violenza del mio amore”, dice la sposa e così sarà. Una guarigione che li condurrà a Parigi e ancora in giro per il mondo, ma la salvezza di Michel, quel suo egoistico vivere e basta, cedendo ai più segreti impulsi, porterà al tragico finale. La forte Marceline, carica di principi e di energia, ostacolo alla sua libertà, infine si ammalerà di tisi, ma né i viaggi né Tunisi a lei serviranno. Diversamente ‘violento’ è per lei l’amore del marito, che la lascia sola, nella triste camera africana, a morire tra la tosse, il sudore e il sangue. Consapevole, eppure incapace di ammetterlo perfino a se stessa, della natura dell’uomo al quale ha dedicato la vita.

Una scena
(foto Umberto Averardi)

Un lungo racconto diventa uno spettacolo ben confezionato, in cui la regista si serve anche di lievi movimenti coreografici, tra mimo e cinema, per descrivere i continui spostamenti degli sposi che, per tutta la vita non hanno avuto un porto sicuro.

Andando oltre il testo, gli autori hanno guardato ai principi, alle scoperte, alle filosofie degli anni a venire. Di un Novecento emancipato e che ha messo in discussione pensiero, religione, certezze.

Uno spettacolo che prende, ben interpretato da una convinta e convincente Marilia Marciello e da un sofferente ed arrabbiato Giovanni Esposito.

 

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