Debutta il 14 febbraio (in scena fino al 23) alla Galleria Toledo di Napoli Il contratto di Eduardo De Filippo, con Claudio Di Palma, Anna Carla Broegg, Andrea de Goyzueta,

Giovanni Del Monte, Francesca De Nicolais, Carmine Paternoster, Fabio Rossi, diretti da Pino Carbone.
Claudio, come mai proprio questo testo, tanto poco visitato?
“Mi ha appassionato il progetto del regista che ne ha fatto una messinscena originale in cui accentua la linea nera del testo, il piglio drammatico, pone l’accento sul tema di legalità e illegalità, della precarietà di cui Napoli è emblema. Temi esistenti nell’originale, ma non in stile surreale”.
Il testo è qui rappresentato come una trilogia. Interpreti tre personaggi diversi?
“No, perché la trama è e resta unica. Mentre le situazioni cambiano, Geronta Sebezio, il protagonista, rimane sempre uguale a se stesso. L’impostazione registica pone in evidenza nel primo atto l’individuo, nel secondo la famiglia, nel terzo la società, con stili differenti. Il protagonista, con l’aiutante Isidoro, procede immutati, anche quando la famiglia è disegnata con linee surreali. Non si stupisce di nulla, esteticamente è uguale in tutti e tre gli atti, è quotidianamente verosimile. Rappresenta la linea comune della storia”.
E’ una cifra che in Eduardo non esiste. Il testo è stato modificato?
“A parte il necessario sfoltimento, è intatto, non ci sono forzature, è l’autorità dei grandi che lo consente. Spingere su questo aspetto, appena accennato in “De Pretore Vincenzo” o in “Il sindaco del Rione Sanità”, è come avere una visone successiva a Eduardo”.
E’ la prima volta che affronti l’opera del Maestro?
“Sì. Anche se, in effetti, ho fatto questo mestiere proprio per la passione che provavo per lui. Mi emozionai tanto quella sera al San Ferdinando vedendolo recitare. E poi, sentire il rumore delle pantofole di Pupella Maggio sul palcoscenico, mi ricordava mia nonna, mi riportava alla mia vita familiare, che veniva raccontata in un mondo ‘altro’, nella magia del palcoscenico. E’ un autore di statura mondiale, con cui il tempo deve fare i conti”.
Tra qualche giorno (il 25 febbraio) porterai in scena “Letteratura e salti mortali” di Raffaele La Capria, che dirigi e interpreti, nell’ambito del progetto a lui dedicato dallo Stabile partenopeo.
“Sì, dopo essermi occupato della messinscena di Ferito a morte, torno all’autore con questa composizione suggestiva, originale, che è una raccolta di articoli degli Anni Ottanta e Novanta con un’alta dissertazione sull’analogia tra letteratura e sport. Poiché La Capria è un saggista più che un romanziere, m’incuriosiva l’idea di coniugare scrittura, saggistica e teatro per fare una trasposizione di questi linguaggi”.
E ancora il 20 febbraio tornerai all’Acacia, con il tuo allestimento di “L’avaro” di Molière con Lello Arena. Come l’hai reso?
“Fedelmente al testo, ma con un allestimento originale che punta sul tempo. Un tempo indefinito, una sorta di percorso dal Seicento ad oggi. Lo spazio scenico, di Luigi Ferrigno, è formato da un perimetro di teche con altrettante sedie di tutte le epoche, indicano il potere, ma anche la vecchiaia e quindi l’avidità, cui il protagonista si condanna. Una è quella utilizzabile, sulla quale l’Avaro si siederà ed è una sedia a rotelle. La ricchezza accumulata gli è utile senz’altro, ma diventa poi una tortura e una dannazione. La menomazione non è soltanto fisica, dunque, ma soprattutto interiore, lo porta alla solitudine e quindi alla morte dei rapporti”.
Hai lasciato Napoli, ma è comunque presente nella vita e nel lavoro.
“Non potrebbe essere assente. Sono transitato solo nel corpo dalla mia città, non posso fare a meno di sentirla. Come La Capria non dimentica Palazzo Donn’Anna, io non dimentico Via Palizzi, la strada della mia vita, dove ho amato e sofferto. Questi due grandi autori mi legano a lei. Condivido la visione che hanno avuto della città, diverse eppure entrambe pertinenti. Loro esplorano paesaggi differenti, ma che comunque le fanno capo, perché li contiene tutti. E non ha a che fare con Napoli anche Molière? E’ qui che ha imparato a fare teatro, dai nostri artisti. Sappiamo che Napoli è l’unica città al mondo che abbia creato e prodotto tanto senza alcuna interruzione, però la sua grandezza non è museificata, questo è un bene, ma purtroppo per lo stesso motivo, troppo spesso viene dimenticata o ignorata”.