
E’ un’opera nuova, attuale, che parla ai giovani. Hanno avuto ragione Mario Martone e la Compagnia del Napoli Est Teatro (dove ha debuttato), mettendo in scena Il sindaco del Rione Sanità di Eduardo De Filippo. Un’operazione rischiosa, come sempre quando si toccano i mostri sacri. Ancora più difficile per il tema che facilmente può sfociare nella semplificazione del fenomeno malavitoso.
Il regista, lasciando da parte il “macrotesto” che accompagna il dramma, ne fa un’opera che riguarda l’oggi. Ringiovanire i personaggi non tradisce né stravolge l’originale. Antonio Barracano, boss di quartiere che consiglia, appiana e applica la sua giustizia, non è ancora quarantenne. Con lui tutta la generazione di coprotagonisti è quella precedente, quella di oggi, quella dei veri capi di camorra che governano l’altro Stato in Campania e non solo.
La scena-installazione di Carmine Guarino, occupa l’intero palcoscenico, è in vetro e metallo, con qualche poltrona, un tavolo, una ringhiera e una porta in fondo. Casa di Terzigno e poi casa di Napoli, a tratti ospedale improvvisato. Qui si svolgono le vicende di ‘O Nait e ‘O Palummiello, di Vicienzo ‘O Cuozzo e dei due (padre e figlio) Santaniello. Tutto annunciato dal rap di Ralph P. (interprete e autore delle musiche) “Niente ‘e nuovo” e da colpi di pistola.
Perfetto nel ruolo del protagonista, Francesco Di Leva, il giovane, palestrato boss che accoglie, rimprovera, risolve, tra la dedizione alla famiglia: la moglie Armida (Daniela Ioia), la figlia Geraldina (la piccola Morena Di Leva) e l’applicazione della giustizia a modo suo. Guai a non consultarlo o riferirgli intenzioni e fatti. “Chi nun tene sante ‘nparaviso, tene Antonio Barracano”. E poiché, come dice Martone non è l’importanza dei ruoli che conta, Massimiliano Gallo veste i panni di Arturo Santaniello, odiato dal figlio che intende ucciderlo. A questo punto, il conflitto morale tocca anche Barracano, ferito a morte durante il tentativo di mediazione. Egli nega a se stesso la legge applicata agli altri. Perché la faida non continui, perché non si versi più sangue, perché i figli non corrano pericoli futuri, preferisce la morte alla vendetta.

Finale cambiato, che nell’originale risolve il contrasto etico tra bene e male, tra legalità e illegalità; realistico più che simbolico, come voleva Eduardo. Il dottore Fabio Della Ragione (bravo Giovanni Ludeno), che per decenni aveva clandestinamente curato i feriti delle guerre di camorra, non sceglie secondo coscienza e dichiara il capo morto per collasso cardiaco, come voleva lui.
E se appena entrati nella storia, sembra di trovarsi in una nuova Gomorra teatrale, a mano a mano che lo spettacolo va avanti, ci si cala in una realtà, ahimè, molto reale, eppure letteraria. Nel suono delle parole, seppure di tono e ritmo attuali, tornano alla mente quelle scritte da Eduardo, per chi lo ha letto o visto.
Sentimento e impegno sociale, come fu per De Filippo, in modo particolare in questo testo e in questa realtà, un luogo, un teatro in cui convivono arte e solidarietà, spirito collettivo e promozione culturale.

Tutti bravissimi gli interpreti, con gli altri: Mimmo Esposito (Gennarino), Salvatore Presutto (Rafiluccio Santaniello), Lucienne Perreca (Rita), Viviana Cangiano (Immacolata), Giuseppe Gaudino (Vicienzo ‘O Cuozzo), Armando De Giulio (‘O Nait), Adriano Pantaleo (Catiello), Gennaro Di Colandrea (Pascale ‘O Nasone) e Daniele Baselice (Peppe Ciucciù.
Una messinscena che non passerà inosservata, anche se, per il momento, prosegue le rappresentazioni soltanto al Gobetti di Torino.