In questi giorni è al Festival di Venezia, nella sezione “Controcampo italiano”, per la presentazione del film di Paola Randi “Into Paradiso”. Gianfelice Imparato interpreta il ruolo di un ricercatore napoletano, precario, che chiede aiuto ad un ex compagno di scuola, politico in carriera, colluso con la criminalità.
Imparato, è questo l’argomento del film?
“No. E’ una commedia garbata, il cui tema portante è la solidarietà e l’amicizia che nascono con un badante cingalese, disoccupato e disperato come lui. S’incontrano su un terrazzo per motivi diversi e la vincono sul politico corrotto”.
Dove è stato girato?
“Nella zona del Cavone a Napoli, quartiere con grande densità di cingalesi. E’ stata un’esperienza molte forte dal punto di vista umano”.
Il cinema l’impegna parecchio. Fortapàsc, Gomorra sono stati significativi e c’è anche un’altra pellicola pronta.
“Sì. In autunno uscirà “La bellezza del somaro”, scritto da Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini. Fra i protagonisti c’è anche Laura Morante e Enzo Jannacci partecipa con un cameo. E’ una commedia sulla generazione dei cinquantenni: tre coppie di amici si incontrano e si raccontano”.
A teatro, invece, dove la vedremo?
“Riprendo per la tournée nazionale “L’oro di Napoli”, con la regia di Armando Pugliese, le musiche di Nicola Piovani e Luisa Ranieri come protagonista femminile. Nella prima parte di stagione, però, debutterò a Milano con “Il grande capo”, un testo di Lars Von Trier, con Valerio Santoro, Erica Blanc e Giada Desideri. Qui interpreto il ruolo di un attore, chiamato in causa per interpretare il Grande capo di un’azienda, in realtà inesistente. E’ la storia di un truffatore, costretto a trovare una soluzione per cavarsi d’impiccio”.
Eduardo, Cecchi, Viviani. Chi le ha dato di più ?
“La lezione di Eduardo, innanzitutto. Era diretta e immediata: s’imparava facendo. Da Cecchi ho appreso l’arte della sottrazione, dell’essenziale. In maniera più intellettualistica, ma in fondo era la stessa cosa. Io ho cercato di fondere le due cose. La mia fortuna è stata quella di essere sempre un battitore libero. Lavoravo a Napoli e fuori, non mi sono mai fossilizzato. E’ una città avvinghiata su se stessa, mi sono svincolato dai perversi meccanismi delle ‘cricche’”.
Ripeterebbe oggi la protesta che qualche anno fa riuscì a mettere insieme tutti gli artisti napoletani contro un certo malcostume?
“Sì. Solo se vedessi un fermento generale, la volontà di lasciare il segno, di costringere la classe dirigente ad un cambiamento. Bisogna alzare la testa tutti insieme e stabilire nuovi criteri di trasparenza”.
E’ colpa della classe politica, secondo lei?
“I meccanismi si sono incancreniti, i soldi non mancano , sono i criteri di distribuzione ad essere malsani. C’è un degrado culturale sempre più marcato. Una borghesia arroccata su se stessa, che non dà e non raccoglie stimoli e una classe intellettuale isolata. E’ vero che si tratta di una situazione nazionale, ma Napoli, nel bene e nel male, è sempre avanti”.
Molte compagnie amatoriali rappresentano il suo testo “Casa di frontiera”, che parla di discriminazione e razzismo. Succede ai grandi autori. Che effetto le fa?
“Provo certamente soddisfazione e concedo il permesso molto volentieri. Credo si tratti di curiosità e dell’attualità del tema ad interessarle. E’ stata una commedia fortunata.”.
Ha un sogno nel cassetto?
“Ce n’è sempre qualcuno. Mi piacerebbe raccontare un paio di storie al cinema”.