Quattro giorni per parlare di Fabrizio De Andrè al teatro Elicantropo di Napoli, con le 71 rose di rame di Riccardo De Luca. Da tempo l’autore e regista partenopeo pensava ad un progetto sull’amico fragile, alla sua Genova microcosmo di mondo, alla sua lucida utopia, al suo meraviglioso canzoniere che non ha eguali. Il 18 febbraio il cantautore genovese avrebbe compiuto settantuno anni, e settantuno rose gli dedica la compagnia di De Luca, Experimenta, alla quale si aggiunge Luisa Amatucci.
De Andrè scrive i suoi testi con la musica, regalando al mondo intense pagine di poesia ma anche struggenti armonie. Cultore, sin da adolescente, della canzone d’autore francese, da Brassens a Brel, vicino idealmente ai suoi poeti e scrittori ma anche a Edgar Lee Masters, a Leonard Cohen e Bob Dylan, De Andrè trova da subito la propria cifra stilistica, inimitabile. Le sue canzoni raccontano di diseredati, parlano di ghetti delle classi alte, di paradisi effimeri e dell’amor profano, di vite ai margini, di prostitute, di “figli della luna”, di drogati, di zingari, di nomadi, di ebrei; i suoi versi denunciano l’ipocrisia, il militarismo, l’odio e analizzano, con accenti di sublime poesia, la religione cristiana. La sua voce calda e profonda, ricca di sfumature, ci sembra ancora oggi la migliore, la più degna di rappresentare il suo universo di personaggi, le sue storie senza tempo.
La sua visione è anarchica, e anarchici sono i viaggiatori sulla nave diretta in Messico a sostenere la rivoluzione – sono sognatori, o solo folli, “khorakhanè”, l’importante è che rimangano artisti, e come tali veri e propri anticorpi contro il potere. Questo il pretesto dello spettacolo, ambientato in un Messico utopistico, patria della rivoluzione di Pancho Villa che riuscirà ad espugnare Durango. Dura sarà la repressione ma lungo è il viaggio dei sognatori/combattenti nel nome della libertà. Forte è la denuncia delle operazioni di polizia, della sopraffazione compiuta per portare la pace… Poco indicate sono tuttavia le battute sui berluscones e la “repubblica delle mignotte” introdotte dal regista, un’inutile forzatura per chi stigmatizzava il Potere come entità multiforme e atemporale, senza volto, subdolo e disumano, con abili metafore ricche di suggestioni. E raccontano il viaggio canzoni quali “La cucaracha”, “Pancho Villa”, canzoni folk intercalate con “La guerra di Piero”, “Signora libertà”, “Via del campo”, “Le acciughe fanno il pallone”, “Il pescatore”, il leit motiv “Avventura in Durango” (“nun chiagne Maddalena”…), la bella traduzione che De Andrè fa della canzone di Bob Dylan, “Romance in Durango”, ricevendo i complimenti dal menestrello di Duluth. Spietata è la storia de “La domenica delle salme”, umana, dolce, “Maria nella bottega di un falegname”, “L’infanzia di Maria” (la “Buona novella”), così come “Princesa” (“Anime salve”), scritta con Ivano Fossati. La “borghesite” è una malattia acuta del genere umano, ieri come oggi; la borghesia è un cancro nella società perché non prende mai posizione mentre il mondo ha bisogno di cambiare, come spiega Gesù, il più grande rivoluzionario della storia, che ha saputo mostrare la salvezza del perdòno. La sua lingua musicale è un dialetto che sposa le lingue del Mediterraneo, memoria di traffici marittimi e di tante culture che si sono intrecciate, come mostra il capolavoro “Creuza de ma”. Gli ultimi della terra, i diversi, gli emerginati ritrovano dignità e poesia nei versi e nelle musiche di un grande cantautore mai abbastanza celebrato, forse perché sempre vivo nella memoria collettiva. Lo spettacolo di De Luca è un bel racconto corale raccontato da un ottimo cast.