Declino e rinascita di un uomo

Redazione

Se ne avessimo tra le mani il soggetto ancora acerbo, senza poter dare un volto e un corpo al protagonista, probabilmente troveremmo la storia di This must be the place un racconto quasi illogico: non a caso, il napoletano Sorrentino ha corso un notevole rischio girando un film del genere; tuttavia, il suo coraggio e la sua eccellenza come cineasta lo hanno ampiamente ripagato. Infatti, This must be the place si è rivelata la pellicola più originale e sbalorditiva dell’ultimo festival di Cannes.

Ultracinquantenne, ebreo, un volto mascherato dal cerone bianco e dal rossetto rosso, una chioma dai capelli irti e spettinati, la tenuta in cuoio nero: così si presenta il protagonista Cheyenne, ex rock star che tanto ricorda il pittoresco leader dei Cure, Robert Smith. Nel suo essere “ridicolo” risiede tutta la credibilità del personaggio, recitato da Sean Penn sempre per sottrazione, senza mai eccedere (il trucco e la sua stessa figura bastano a renderlo di per sè eccessivo e al limite); un personaggio che Sorrentino costruisce realisticamente, attribuendogli tic e quel ghigno demenziale che tanto lo contraddistingue. In seguito al suicidio di due fratellini che avevano preso alla lettera  le sue canzoni, Cheyenne si è pensionato dal successo e dalla vita precocemente, rifugiandosi con la moglie Jane (Frances McDormand) in una villa asettica alla periferia di Dublino. Qui viene raggiunto dalla notizia dell’imminente morte del padre, rimasto a New York, con il quale aveva interrotto i rapporti da trent’anni, perché convinto che non gli volesse bene. Una volta fatto ritorno nella Grande Mela, Cheyenne fa una scoperta sensazionale: il padre aveva speso la vita per dare la caccia al criminale nazista, che lo aveva pesantemente umiliato durante la reclusione ad Auschwitz. Dramma, quello dei lager, che viene vissuto e affrontato con la leggerezza e l’infantile ingenuità che solo un bambino può avere e che, a tutti gli effetti, caratterizzano il comportamento del protagonista stesso. E’ a questo punto della storia che Cheyenne decide di proseguire le ricerche iniziate dal padre, cominciando così un viaggio attraverso i paesaggi sconfinati degli Stati Uniti (numerose sono le citazioni del cinema americano on the road), che lo condurrà da personaggi solitari, un pò folli e ai margini della società americana. Tuttavia, alla base dell’atipica investigazione, che Cheyenne mette in atto con l’inesorabile lentezza che gli è propria, c’è il suo profondo bisogno di riconciliazione: con la memoria del padre, innanzitutto, e, infine, con se stesso e con la vita, trovando il modo di affrontarla senza la necessità di ricorrere a una maschera. La vendetta, che verrà consumata in modo del tutto personale, rappresenterà per Cheyenne l’apice di un percorso di maturazione, che lo porterà ad essere finalmente un adulto. In definitiva, This must be the place, come lo stesso regista lo ha definito, si propone come “un romanzo di formazione di un cinquantenne”, il tutto magistralmente farcito da musica d’autore (David Byrne interpreta tra l’altro la parte di se stesso) e da una fotografia stupefacente, quella di Luca Bigazzi.

Chiara Ricci

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