Francesco Di Giacomo

Maresa Galli

Francesco Di Giacomo

Hanno scritto la storia della musica italiana mutando per sempre gli stilemi della musica italiana schiacciata tra canzoni troppo leggere e il genere cantautorale. Incontriamo Francesco Di Giacomo, esponente dello storico gruppo Banco del Mutuo Soccorso.

“Penso che nessuno sia depositario della verità della musica; probabilmente sarà una questione di cultura, appartenenza storica; noi veniamo da un periodo storico in cui suonare, forse anche con un po’ di prosopopea, era vissuto quasi come una missione, un mandato templare per fare chissà che. Però questo ci ha dato la possibilità e un segno forte di essere onesti perché al di là dell’invenzione la musica si può fare in mille modi, anche col computer.Un artista deve avere un collegamento continuo con ciò che accade con l’esterno e noi abbiamo cercato sempre di farlo: non per questo siamo meritevoli ma questa è la partenza. Le cose che fai, che scrivi, sono quelle che senti. E se ti toccano la tua musica sarà bella o brutta però parla di te”.

Negli anni ’70 c’era un’atmosfera corale, partecipativa nelle band.

“Questo è vero però nel banco Vittorio, ma anche Gianni, tracciavano un po’ le tracce musicali; a me spettava la parte letteraria, dell’immagine. Poi se ne discuteva; noi abbiamo fatto degli album, come nel ’73, “Io sono nato libero”, anno della morte di Allende. Ti rendi conto con l’andare del tempo che la storia è molto è più lenta e l’essere umano è molto più imbecille di quanto tu avessi sperato non fosse. E ti ritrovi con le cose scritte quarant’anni che hanno un’autorità violenta e drammaticamente vera”.

In Italia domina Sanremo della canzonetta: quanto è stato difficile proporre album come “Di Terra”?.

“All’inizio a Sanremo passava la musica italiana, poi nel tempo è diventata lo specchio dell’apparire, uno spettacolo televisivo con delle canzoni dentro. Non c’è nulla di male se si considera uno spettacolo di canzoni ma non è la musica italiana che non passa da lì. Vedi De Andrè che non era Sanremo; noi siamo passati da lì ma non venivamo da Sanremo, così Pino Daniele; Caparezza non passa per Sanremo. Però non possiamo non dire che Sanremo non ci abbia dato un grande Modugno. Poi piano piano si è imposto il personaggio televisivo che aveva fatto venti puntate di successo che decideva di andare a Sanremo per fare audience. Scrisse bene un critico che sarebbe bene che questo lavoro lo facesse chi fa musica trecentosessantacinque giorni l’anno e non chi fa ha successo per una fiction. E poi è andata sempre avanti così, con la mora e la bionda, con i vestiti cambiati… Il clichè è rimasto quello”.

Quali circuiti hanno oggi i giovani musicisti che non siano i talent o Sanremo? I nuovi media, la rete, possono aiutare la diffusione della musica?

“Questo è vero, nonostante ci siano questi contest così feroci, all’americana, dove non c’è nessun desiderio di scambiare ma solo di sopraffare l’altro. Però ci sono manifestazioni e circuiti diversi; io sento degli autori, dei ragazzi che fanno delle cose bellissime, e le senti in internet. E qualcuno prepotentemente viene fuori; però, siccome impera la faccia, il video, i ragazzi sono attratti da tutto quello che velocemente ti porta a dimostrare la tua esistenza attraverso la televisione che diventa un viatico. Quindi cammini su tua madre, tuo nonno, tuo padre pur di arrivare”.

Nel concerto-evento al Palapartenope avete suonato brani individualmente e poi insieme… Ne farete un live, un dvd?

“Abbiamo suonato mantenendo ognuno la propria identità e alla fine abbiamo fatto arrangiamenti sui pezzi delle Orme. Questo è un momento nel quale stiamo scaldando i motori… Poi ne verrà fuori un dvd molto interessante, un disco dal vivo…”.

Il “peso” della storia vi aiuta ad andare avanti, migliorando sempre.

“Certo. Oltre al nuovo album che ne verrà fuori sono usciti due libri, di cui uno di Vittorio sulla musica colta e sulla musica del Banco, molto interessante e poi con l’unica cattedra di musica rock che c’è in Italia, a Lecce, e ci saranno molte altre novità. Di quest’avventura ha preso le redini Giancarlo Amendola”.

Avete vissuto gli anni storici della musica, anni “caldi” di contestazione, ma anche anni propositivi e poetici e li avete affrontati molto bene, sapendo anche cambiare, con coerenza.

“Ci siamo trovati in situazioni drammatiche, come al concerto di Pontedèra…”.

Altro che indignados…

“Revolverados!… ma no, pistolettate, con la polizia a trecento metri… Ero terrorizzato”.

In quarant’anni di musica avete conosciuto e scambiato esperienze con gli altri grandi musicisti inglesi e americani: Nice, Gentle Giants, Genesis, un periodo grandioso per il rock internazionale. Voi siete stati gli unici in grado di competere con la musica inglese.

“Competere è una parola grossa”.

Diciamo allora che pur provenendo da diverse impostazioni culturali eravate affini

“Si, e abbiamo cominciato a fare tournèe all’estero, in Messico, in Giappone, Stati Uniti… Il nostro piacere è stato quello di incontrare persone che erano state i nostri miti, Eric Clapton fra questi, trovarle con noi in camerino e poi suonarci assieme! Ho un bellissimo ricordo: era il nostro primo tour, in Inghilterra, nel ’75, con Francesco Sanavio, e usciva il doppio album del Led Zeppelin, “Physical Graffiti”. Loro ci hanno regalato questo disco che sarebbe uscito il mese successivo. Non ci rendevamo conto, lo trovavamo bello. Qualcuno ci avrebbe costruito una carriera…(I Led Zeppelin che ci regalano l’album prima dell’uscita ufficiale!…)”.

Tra i fan annoverate tanti giovanissimi, addirittura ventenni. C’è stato un salto temporale tra gli ultracinquantenni e i ragazzi. Come ve lo spiegate?

“Ci sono due strade molto battute: una è questa dei grandi spettacoli televisivi che ti porta a trasformarti pur di arrivare in qualche modo; e questa via mi addolora perché se ci sono talenti vengono già in nuce strozzati o modellati e diventano altra cosa. Dall’altro lato ci sono i ragazzi che suonano, che dispetamente, con forza, si scelgono la musica e sono tanti e te li ritrovi al concerto. Ho notato questa cosa la scorsa estate a Catanzaro: c’era un mare di giovani. Poi alla Casa della Musica, a Roma, dove il 70% dei ragazzi aveva tra i diciassette e i vent’anni. Conoscono i testi a menadito e te ne chedono ragione. Questo possiamo dirlo a nostro vanto. Sul Banco sono state fatte tre tesi di laurea in Lettere: una sull’album “Darwin!”, l’altra su tutti i nostri testi e poi la Società Dante Alighieri ha pubblicato un libretto sui testi del Banco. Questo mi ha fatto molto piacere e mi ha anche un po’ preoccupato. Ognuno di noi è a suo modo artista; c’è poi chi ci prova e lo fa e chi trasforma questo suo modo di essere in hobby. Credo che la nostra parte artistica ci sia sempre. Spesso l’artista si siede su se stesso, il come eravamo è bello ma il confronto con il come siamo è meglio”.

Parli di clichè, di artisti che si autoclonano.

“Prendiamo personaggi che continuano a essere a sessantacinque anni come erano a venti, mentre il latte è finito e la mamma è morta… Voglio dire che ormai sei radicato su un certo tipo di successo (denaro, tranquillità, riconoscimento, etc): c’è gente che si chiude in questa torre d’avorio e non gli interessa nulla di rischiare artisticamente. L’artista deve andare da un’altra parte di se stesso se no si fa il verso tutta la vita, finendo con essere la cover di se stesso”.

La tecnologia può aiutare la musica. Voi avete tanti incontri con le scuole, i giovani, insegnate multimedialità: cosa gli raccontate?

“E’ semplice: se hai delle idee è chiaro che la tecnica ti aiuta e in modo molto più veloce. Prima c’era molta più “artigianeria”, si registrava sul nastro. I nuovi supporti servono solo se hai qualcosa da dire”.

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