Tra gli interpreti illustri, che lo hanno portato al successo a Broadway c’è l’italo-australiano Anthony LaPaglia. E’ Cercasi tenore di Ken Ludwig,

in scena fino al 29 gennaio al teatro Acacia di Napoli, interpretato da Gianfranco Jannuzzo, Milena Miconi e altri sette attori, diretti da Giancarlo Zanetti.
Gianfranco, come si trasferisce questo spettacolo da Broadway ai teatri italiani?
“Innanzitutto abbiamo usato una traduzione molto fedele all’originale americano per mantenere l’efficacia dei doppi sensi e delle battute E’ una commedia senza pretese ma molto divertente. Una situazione leggera di teatro nel teatro, ricco di equivoci e qualche colpo di scena. Siamo negli Anni Trenta e si sta preparando la messinscena di Otello, c’e attesa per il celebre tenore che dovrà interpretare il Moro. Questi non arriva, è l’occasione che aspettava il segretario di compagnia, Max che sono io, per esibirsi. Ma l’artista finalmente giunge in teatro ubriaco e da qui scaturiscono le sorprese e le risate”.
Che tipo di scena ha creato Nicola Rubertelli?
“Ha realizzato un’idea geniale: un ambiente doppio, sistemato uno avanti all’altro. Una scenografia essenziale, elegante come tutte le sue creazioni”.
E la musica?
“Originale e riconoscibile. Oltre l’Otello, c’è il Rigoletto, il Don Carlos di Verdi, ma anche brani di Rossini quando la situazione è più leggera, diventando così una pochade anche musicale”.
Allora canti da tenore?
“Solo quando si prova, al momento dell’esibizione sono doppiato da un professionista”.
Proietti, Falqui, Bramieri, Garinei: maestri illustri. Che cosa ti hanno insegnato?
“Tutto. Gigi, l’abc della recitazione e l’importanza della disciplina. Con Gino Bramieri, col quale ho lavorato per sei anni, avevo in comune l’amore per questo lavoro, formavamo una bella coppia: lui milanese io siciliano. Garinei, poi, lo considero il maestro. Mi ha scoperto all’Orologio e mi ha portato al Sistina, sono stato in compagnia con lui per diciassette anni. Con Falqui sono approdato alla televisione. Ma poi ci sono stati Scaparro, Falk, Lavia, Limiti, Avati e adesso Ranieri con il teatro di Eduardo. Mi considero un privilegiato, è come aver frequentato l’università dello spettacolo. Un’occasione preziosa per crescere e rubare a ciascuno di loro un pezzettino di professionalità”.
Reciti, ma scrivi pure per il teatro. Che cosa t’ispira?
“Gioco sull’essere italiani, sull’orgoglio del nostro popolo. Credo che, nonostante le differenze, abbiamo un unico patrimonio di letteratura, cultura, arte. M’interessano le contraddizioni tra il Nord e il Sud, ma sono convinto che torinesi o milanesi, napoletani o siciliani, siano in fondo uguali. Capaci di cadere sempre in piedi o di rialzare la testa quando serve. Mi piace sfatare i luoghi comuni”.
E’ anche l’aspetto che ti lega alla Sicilia?
“Sì. Il senso di appartenenza, l’importanza delle radici, l’attaccamento”.
Attore poliedrico hai lavorato in tutti i settori. Haiuna preferenza?
“Mi piace fare tutto purché sia di qualità. Ho avuto grandi modelli e il teatro insegna a fare qualsiasi altra cosa. Oggi non è così, spesso si creano falsi miti, che non aiutano i giovani a essere consapevoli e a investire su se stessi”.