Un sogno d’evasione

Redazione

Una scena
Una scena

A Firenze, dentro l’ex manicomio di San Salvi, tra le pareti immaginarie evocate dalla creatività dei “Chille de la balanza”, la messinscena de Il ballo (tratto dall’omonimo racconto breve della scrittrice francese – di origine ucraina – Irene Némirovsky) prende avvio.

“Il ballo” stuzzica e fa sudare l’inconscio, trascina fuori dallo spazio e dal tempo ordinario, fino a sfiorare una dimensione personale in cui le speranze di una bambina e le paure di una donna si incontrano e si riconoscono. Lo spettacolo messo in atto dai “Chille de la balanza” è la possibilità che meritiamo, la sfida da accettare per riabbracciare le parti di noi in dissidio. E per dare una rotta diversa a quegli eterni ritorni, che vorremmo invece ci lasciassero andare lontano.

Nel teatro di Sissi Abbondanza, colonna dellastoricacompagnia napoletana, una linea bianca tracciata sul pavimento basta a ritagliare dallo spazio un luogo per l’attuarsi possibile di fantasie reali. Un segno sottile, a una sola dimensione, si trasforma in palcoscenico senza diaframmi. Ogni sparuto dettaglio della minima scenografia contiene l’essenza dello spettacolo e alimenta la massima drammaticità. Fuori dal perimetro gli spettatori si dispongono in due ali speculari, invitati e “costretti”a guardare; oppure a osservare, giudicare, riconoscersi negli occhi di chi siede di fronte, al lato opposto. Dentro il quadrato gli attori sono in piedi, fermi ai quattro angoli. Il loro sguardo è duro e ieratico, di statue che aspettano di essere svegliate dalla musica, ma le loro voci compongono una sonata per strumenti solisti, una disarmonia nella quale le parole sono fitte di silenzio e incomunicabilità, dove i corpi si muovono su frequenze e tonalitàdiscordi. Fuori: sere primaverili del nostro secondo millennio. Dentro: dentro le mura, per sempre dentro il quadrato, rindora la Parigi borghese degli anni ’20. Da ancora piùdentro, il pensiero assillante, la voce continua, il grido straziato di Antoinette: «Vorrei andarmene lontano».

Dentro la scena: il padre di Antoinette, interpretato da Vincenzo De Caro, èun banchiere ebreo, disattento alla vita familiare e arrivista. Dopo anni di miseria e sacrifici riesce a fare fortuna con un colpo in borsa, vendendo per denaro ciòche rimane della sua paternità, della sua umanità, dei suoi giàimmiseriti sentimenti. Rosine Kampf, impersonata da Sissi Abbondanza, èun pozzo di vanitàe disamore. Né donna, né moglie, né madre, porta dentro lo spettro del fallimento esistenziale, degli anni passati nella privazione ad aspettare il suo momento per godere la vita. Rosine difende, tirannica e crudele, la sua meritata vittoria: soprattutto nei confronti della figlia, antagonista e rivale, capace di strapparle la felicità appena conquistata. Antoinette Kampf, interpretata da Irene Montagnani, è la giovane protagonista de “Il ballo”. Ha quattordici anni ma il suo corpo allungato e piatto, le goffe gestualità, i tristi e anonimi vestiti in cui ècostretta, la fanno sembrare ancora una bambina. Antoinette ha una fame arrabbiata di vita: dentro di lei le fantasie sui futuri amori e la volontàdi emancipazione si scontrano con il disgusto per l’ipocrisia della società. La sua difficile lotta avviene tra le mura domestiche, per affacciarsi a uno spiraglio che la liberi dallo stato di ombra cui èstata relegata dai genitori, i quali la usano come strumento per la loro bramata ascesa sociale. I “Chille de la balanza, con effetti e magie, danno voce ai suoi monologhi interiori, ingenui ma già spietati. E un desiderio costante: «Vorrei andarmene lontano».

Fuori dalla scena: una linea bianca come limite divisorio di epoche diverse, di differenti costumi, di altri destini. Una linea bianca fisicamente non oltrepassabile, come se fosse un muro di rete. Ciòche attraversa lo spazio e il tempo, oltre l’atto teatrale, non èla materia: passano le sofferenze familiari, il rapporto nevrotico tra madre e figlia, l’ipocrisia, la sete di denaro e l’ansia di affermazione sociale propri di tutti i tempi. A dare consistenza alla gabbia dorata quattro specchi, posti in ogni angolo del palcoscenico, rifrangono e ripetono con prospettive diverse sempre la medesima scena. Ingannano e nutrono l’illusione di entrare nella storia con la sicurezza di poterne uscire, mentre condannano a essere rimbalzati da una bocca all’altra, da una superficie all’altra. Come una palla, come quel pensiero che continua a girare, mosca impazzita che vaga nella testa anche nei giorni successivi allo spettacolo: perchéa essere chiamati in causa sono i fantasmi di ognuno, il rapporto più intimo con la propria identità, i richiami a dolori ed esperienze ataviche e universali. Un ossessivo ritorno di tenerezza e rancore, anche se: «Vorrei andarmene lontano»

Dentro: indire un ballo è, per i Kampf, l’occasione di mostrarsi e farsi accettare dall’alta società. L’ideazione, la preparazione, l’attesa degli ospiti sono un crescendo di gesti, battute e aspettative individuali che, dal tono grottesco all’esasperazione della cafonaggine degli arricchiti Kampf e dei loro simili, si trasformano in vera tragedia. Di tutti i personaggi “importanti”che avrebbero dovuto partecipare, ai quali Antoinette avrebbe dovuto spedire gli inviti, la sera del ballo si presenta solo l’insegnante di pianoforte della ragazza (ruolo impersonato da Roxana Iftime). L’evento decreta un’insostenibile e inguaribile umiliazione. La sete di vendetta di Antoinette, feroce e incosciente, si èabbattuta sulla famiglia distruggendone i sogni di gloria e sancendone la sconfitta. La ribellione improvvisa, scaturita da un torto inaccettabile e dalla presa di coscienza del suo stato di cattività, apre le porte alla fuga, alla liberazione, all’emancipazione dalla figura materna.

Inesorabilmente, dentro il perimetro: rimangono madre e figlia, in un abbraccio finale, in una stretta mortale. Fatalmente, da fuori: gli specchi rimandano l’immagine di un sogno d’evasione non più possibile, rivelando la tragica necessitàdel ripetersi del destino contro ogni tentativo di salvezza. Ripropongono l’identico: avrebbero voluto… lontano.

Francesca Cappelli

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