Un altro evento del Campania Teatro Festival, in scena al Teatro Mercadante di Napoli, il 20 e il 21 giugno: “Il Rito”, spettacolo tratto dall’omonimo film per la tv di Ingmar Bergman del ’69, adattamento e regia di Alfonso Postiglione. E’ una prima assoluta, una coproduzione della Fondazione Campania dei Festival-Campania Teatro Festival, Ente Teatro Cronaca e Teatro di Napoli-Teatro Nazionale. La storia ha per protagonisti tre artisti di varietà: i coniugi Hans (Antonio Zavatteri) e Thea Winkelmann (Alice Arcuri) e Sebastian Fischer (Giampiero Judica), amante della donna. Denunciati per la presunta oscenità di un loro spettacolo, il giudice Abrahmsson (Elia Schilton) li sottopone ad un fuoco di fila di domande per scoprirne l’eventuale colpa. Belle le scene di Roberto Crea, con lo studio buio del giudice, sollevato da terra, e il suo grigiore, il suo affanno, sono il mondo arido del diritto. L’ambiente in cui agiscono gli artisti è essenziale, bianco, illuminato d’arte e di vita.

Apparentemente umano e disponibile all’ascolto, in realtà è un carnefice frustrato, represso. Attratto dall’arte ma, non riesce a comprendere, e attratto dalla sensualità di Thea, di cui abuserà, terrorizzato all’idea di essere vulnerabile, piuttosto che forte e pragmatico come dovrebbe. Costringe gli artisti, moderno inquisitore, a mettere in scena, nel suo studio, la performance come fossero a teatro.
Emergono a poco a poco le stridenti personalità freudiane di Hans, razionale e impeccabile nei ragionamenti, disposto a tollerare il tradimento della esuberante moglie. Thea, nervosa, volubile e instabile. Sebastian violento, egoista, impulsivo. Insieme formano una sorta di trinità, fasciati/scoperti da iconici abiti bianchi ideati da Giuseppe Avallone. Spinti sulla scena-specchio di vita, ad una crudeltà artaudiana, nel finale i tre attori rivisitano il loro numero, esibendo oscenità mai gratuite.
Indossando delle maschere e dei falli sopra i costumi, rimandano ad arcaici riti, quasi dionisiaci, di cui si è smarrito il senso e la memoria nel mondo contemporaneo – è la vita stessa colpevole. Realtà e finzione si intrecciano, gli opposti si annullano e chi sembrava moralmente forte era piuttosto vittima di bassi istinti. Il giudice, alla fine, rivela: “Ho i miei superiori e i miei dipendenti, do ordini e mi danno ordini. Voi siete liberi invece. Io non vi invidio: è una terribile libertà, non è vero? Io non vi capisco. Non capisco cosa vi guida, non capisco questi vostri legami, non capisco la mia propria connessione con voi.”

Il giudice Abrahamsson non riuscirà a bloccare l’oscenità dell’arte, la sua forza vitale incontenibile, morendo d’infarto nell’indifferenza dei tre attori. Bella la regia di Postiglione, bravi gli attori e ottime le musiche di Paolo Coletta. Lunghi e meritati applausi alla prima.