Lo ha chiamato semplicemente con il nome del ciclista di cui racconta la storia: Pantani. Marco Martinelli è autore e regista dello spettacolo in scena al teatro Nuovo di Napoli dal 22 al 27 gennaio. Con Alessandro Argnani, Luigi Dadina, Roberto Magnani, Michela Marangoni, Ermanna Montanari, Francesco Mormino, Laura Redaelli.
Marco, come definiresti questo lavoro?
“Un’opera degenere, un incrocio, una contaminazione fra tragedia e inchiesta giornalistica, fra romanzo e poesia”.
Perché questo titolo?
“Per richiamare subito alla memoria il campione di cui parliamo, ma anche perché allude ai pantani della nostra Repubblica, che emergono raccontandone la vicenda. Marco Pantani è un mito, un ragazzino che a dodici anni batteva tutti con la sua bicicletta, che è arrivato all’apice della gloria, unico italiano a imporsi dopo Coppi, ma che è stato scaraventato in un abisso. Un campione adulato, un’icona, ingiustamente accusato di doping, che va a morire come un vagabondo in uno squallido residence riminese. E’ una vicenda drammatica e tragica, ma piena di ombre”.
Che tipo di messinscena hai realizzato?
“E’ un rito della memoria, una sorta di veglia funebre e onirica, affollata di personaggi. Marco non è in scena: sono gli altri a raccontare di lui. Innanzitutto i genitori: Tonino e Paolo due figure popolari, semplici, che aspettano ancora la verità; i suoi gregari Conti e Fontanelli; diverse figure della cronaca, il ministro Gasparri, Renato Vallanzasca, medici e ispettori. E’ un giornalista francese, uno straniero a tenere il filo di una vicenda tutta italiana. L’ho chiamato “l’inquieto”, l’unico senza un vero nome, perché vorrei che gli spettatori s’identificassero con lui, un uomo che non accetta la ‘vulgata’ costruita intorno a Marco, che si batte perché si comprenda che non era un baro”.
Non è uno spettacolo di cronaca, né di teatro civile, qual è dunque lo scopo che vi proponete?
“Quello di restituire attraverso la scena dignità a questo grande campione. Marco Pantani ha subito un linciaggio morale, mediatico e politico, è diventato il capro espiatorio di una società dopata, composta da vecchietti che non si rassegnano e assumono il Viagra, da ottantenni che ci comandano. Raccontiamo l’Italia un po’ impazzita dell’ultimo ventennio. Sarà una coincidenza, ma Marco comincia la sua avventura nel 1994 quando nasce la seconda repubblica. Oggi, siamo alla terza. Rifletterei sul fatto che non basta cambiare sigla o dare una mano di vernice, per presentarsi come nuovi”.
Fate allora anche una denuncia?
“Il Teatro delle Albe ha questa vocazione: crediamo in alcuni temi e ci lavoriamo sempre. Il teatro deve far pensare divertendo e commuovendo. E’ così dal tempo dei greci a Brecht, deve avere un rapporto con la polis e con i cittadini. La nazione affonda ancora nel servilismo, combattiamo perché penso che le cose possano davvero cambiare e continueremo ad indignarci.”.
Come reagisce la gente?
“E’ uno spettacolo lungo, dura circa tre ore, ma il pubblico lo segue con attenzione e alla fine si crea come un abbraccio generale”.
Hai inserito contributi video, musica e cori.
“Le musiche sono composte e suonate dal fisarmonicista Simone Zanchini, ispirate all’area popolare e a sonorità d’avanguardia. Michela Marangoni e Laura Redaelli danno vita a cante romagnole antiche. Le proiezioni, invece, presentano spezzoni delle imprese sportive di Marco e filmati familiari, che lo raccontano nel privato”.
Manchi da Napoli dal 2009, dai tempi del progetto “Arrevuoto” e “Punta Corsara”, torni volentieri?
“Ho vissuto qui anni splendidi. Ci vengo con gioia ma con una punta di rammarico, perché purtroppo le cose non sono andate avanti come ci aspettavamo. L’Auditorium di Scampia è un luogo significativo, ma c’erano le basi per costruire di più. D’altro canto, però, sono molto felice che la compagnia nata dal progetto giri l’Italia con spettacoli molto apprezzati, vincendo premi ovunque”.