La Cupa inaugura la stagione del Bellini

Anita B.Monti

Torna Mimmo Borrelli che l’8 ottobre 2022 inaugura la stagione del Teatro Bellini di Napoli con La cupa – Fabbula di un omo che divinne un albero: versi, canti, drammaturgia e regia da lui firmati. Con lui, recitano Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Rossella De Martino, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio, Roberta Misticone; cene Luigi Ferrigno; costumi Enzo Pirozzi; disegno luci Cesare Accetta; musiche, ambientazioni sonore composte ed eseguite dal vivo da Antonio Della Ragione; foto di scena Marco Ghidelli. Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini.

Un racconto arcaico, un testo in versi, un fiume di parole recitate e cantate nella lingua bacolese, evocativa e dalle particolari sonorità, che riporta ad antichi miti e storie terribili. Borrelli riporta in scena questa favola fantastica eppur reale, che attraverso i cupi personaggi e le particolari ambientazioni, racconta la vita, le origini, il percorso esistenziale. Tra poche luci e molte ombre, La cupa, luogo d’amore negato, di stupri e di dolore, esprime la violenza del nostro tempo, le paure, i veleni della contemporaneità, che assurgono infine a Verità.

Una scena dello spettacolo

Tutto viene evocato in una notte, nella notte di Sant’Antonio e il suo fucarazzo. “Quando, – scrive l’autore – secondo gli antichi, gli animali potevano parlare agli uomini, ma con un prezzo da pagare, chi li ascoltava aveva in dote sventura e dannazione. Ma Innocente Crescenzo e il suo maiale Ciaccone non possono che espiare, da sopravvissuti, ogni anno le sorti di una saga bastarda della degenerazione umana: favola di uomini che come gli animali agiscono, ma con lo sterco della ragione e gli animali che agli istinti sottopongo la ragione non possono che agire in modo perverso.

La trama è un fittizio e afflitto mondo altrove dove si scontrano i pianeti porosi di una saga dalle colpe sepolte tra anfratti, strati geologici, fatti aneddoti ed incavi, il cui confine della memoria è smunto e levigato, da anni, venti malsani ed epoche di misfatti e di peccati originali.

Trama incastonata nel cuore buono e generoso un tempo, del suo protagonista in negativo Giosafatte ’Nzamamorte: sempre attento al prossimo, ma comunque sia, morto dall’amarezza e la fuliggine in cristalli di tufo porosi di rettitudine. Un uomo buono, retto, sorretto dalla coscienza di un passato inquieto, indecifrato, burrascoso, folle dal quale ha preso distanza, con il rispetto verso la dimenticanza di una memoria sepolta. Memoria, la quale se scavata, come i blocchi che di giorno in giorno vengono estratti dalla sua cava restituendone, in calce morta, cadaveri, potrebbe esplodere e franare in modo dirompente. La memoria è la famiglia perduta di Giosafatte ’Nzamamorte e la sua moglie Bianca”.

Rappresentata per la prima volta nel 1918, l’opera, Premio Ubu al miglior testo o nuovo progetto drammaturgico, si è completata nel tempo delle diverse parti che lo compongono oggi.

 

 

 

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