
ORGOGLIO E DIGNITÀ DEI DISEREDATI NEL LAVORO DI DOROTHEA LANGE IN MOSTRA A NAPOLI
Quando si pensa alla Grande Depressione, ci sono alcune immagini che subito vengono in mente: le file di disoccupati americani per strada, la folla disperata fuori Wall Street dopo il crollo della Borsa valori o la pila di banconote con cui due bambini tedeschi giocavano negli anni ‘20, quando per un dollaro USA occorrevano 4miliardi di marchi. Forse in Italia è più difficile identificare quel periodo storico negli scatti di Dorothea Lange, la grande fotografa americana in mostra fino al 15 settembre prossimo presso la storica Galleria Trisorio a Napoli. Eppure la Depressione americana negli USA ha trovato la sua icona proprio in Migrant Mother, scattata in California nel 1936, dove la Lange ritrae una madre “senza patria” che protegge i suoi figli, una dei 300mila immigrati giunti nello stato americano in cerca di lavoro.
La retrospettiva A visual life, patrocinata dal Consolato generale Americano per il Sud Italia, le dedica 30 fotografie, scattate fra il 1930 e il 1940. Le opere provengono dal libro reportage American Exodus, scritto dall’economista Paul Taylor, secondo marito della Lange, che l’aveva introdotta nel programma della Farm Security Administration, l’organismo federale di monitoraggio della crisi voluto dal presidente Roosevelt. Le condizioni di vita nelle zone rurali degli Stati Uniti, la povertà degli agricoltori e delle loro famiglie, l’abbandono delle campagne a causa delle tempeste di sabbia che avevano desertificato 400.000 km² di terreni agricoli, sono trasposti con passione e partecipazione emotiva nelle fotografie che realizzò.

L’umanità dei soggetti che ritrae non è mai secondaria all’esigenza di documentare la realtà: nelle sue immagini la fotografa non mette a fuoco solo la disperazione e la miseria delle persone, ma anche l’orgoglio e la dignità con cui diseredati ed emarginati affrontano il proprio destino. Quando infatti nel 1942, in seguito all’attacco giapponese di Pearl Harbor, la WRA (War Relocation Authority) incaricherà la Lange di fotografare la deportazione forzata dei nippo-americani nei campi di internamento, il suo obiettivo non rinuncerà a ritrarli prima di tutto come essere umani. Le etichette numerate su giacche e cappotti di intere famiglie giapponesi svelano il suo disappunto per il trattamento riservato a quei cittadini.
La macchina fotografica è stata per la Lange una grande maestra, lo strumento attraverso il quale osservare profondamente il mondo, provando a vivere una vita visiva: “Bisognerebbe utilizzarla come se il giorno dopo si dovesse essere colpiti da improvvisa cecità”, usava dire. Di grande aiuto fu per lei “l’empatia e il rapporto esclusivo che instaurava con il soggetto fotografato. Forse la sofferenza vissuta fin da piccola a causa della poliomelite l’aveva avvicinata al dolore e a quel male di vivere così diffuso”, ricorda l’antropologa Helga Sanità, che di recente ha curato una visita guidata all’esposizione con il professore Luca Sorbo, docente di fotografia all’Accademia di Belle Arti e presso la scuola Pigrecoemme.

Ma non c’è solo Napoli a celebrare il suo lascito fotografico: una seconda sezione della retrospettiva The camera is a great teacher, a cura di Gennaro Matacena e Matteo Scaramella, lo scorso giugno è stata inaugurata a Castello di Postignano (Sellano, PG).
E’ la prima volta in Italia che ben due mostre offrono un ampio spaccato del lavoro di Dorothea Lange, pioniera della fotografia documentaristica e di denuncia sociale.