E’ la saga più vasta della letteratura mondiale. l’opera fondamentale della letteratura induista, Mahābhāratae, il poema epico scritto in sanscrito, elaborato nel corso di circa 8 secoli (tra il IV a.C. e il IV d.C.), composto di oltre 100.000 strofe. Lo spettacolo (in inglese con i sopratitoli in italiano) è in cartellone dal 20 al 25 febbraio 2018, al Teatro Bellini di Napoli, tratto da Mahābhārata e dal testo teatrale di Jean-Claude Carrière, nell’adattamento e regia Peter Brook e Marie-Hélène Estienne, traduzione in Italiano a cura di Luca Delgado, con Karen Aldridge, Edwin Lee Gibson, Jared McNeill, Larry Yando, musiche Toshi Tsuchitori, costumi Oria Puppo, luci Philippe Vialatte.
Il Mahābhārata racconta della grande guerra di sterminio, che dilania la grande famiglia Bharata. Da un lato ci sono i cinque fratelli Pandava contro i loro cugini Kaurava, i cento figli del cieco Re Dritarashtra. Entrambe le fazioni usano terribili armi di distruzione e alla fine vincono i Pandava, lasciando sul campo di battaglia milioni di corpi morti. Un numero spropositato per l’epoca, un terribile massacro che costringe il vecchio Re Dritarashtra e il neo eletto Yudishtira a una profonda autoanalisi e a interrogarsi sulle loro responsabilità.
La domanda da porsi è se questa guerra poteva essere evitata visto che anche per lo stesso vincitore si tratta di una vittoria con il sapore della sconfitta.
L’intenzione di Peter Brook e Marie-Hélène Estienne, è di parlare di ciò che accade dopo la battaglia. La ricchezza del linguaggio dell’opera e la sua storia, consentono di portare sulla scena una vicenda, che appartiene al passato ma di grande attualità.
La prima volta il maestro inglese Peter Brook la portò in scena trent’anni fa in una versione della durata di 9 ore, che debuttò in una cava alle porte di Avignone in occasione del Festival e che è passato alla storia: rappresentato per due anni sia in francese che in inglese, è stato in seguito adattato dallo stesso Brook per una miniserie televisiva e per il grande schermo.
Oggi, il regista novantenne ha sentito l’esigenza di affrontare di nuovo il poema. «Non è una ripresa e neanche un’operazione nostalgica – spiega – ma al contrario, un progetto che nasce dalla volontà di creare, nello spirito dell’oggi, una piéce molto essenziale e molto intensa, che tratta di qualcosa che ci riguarda. […] Il poema descrive la guerra che dilania una famiglia. […] alla fine, i Pandava vincono, ma nel poema si parla di “10 milioni di cadaveri” un numero incredibile per quei tempi. È una descrizione terribile, che potrebbe essere Hiroshima o la Siria di oggi. […] Quando si leggono le notizie di attualità si rimane arrabbiati, disgustati, sconvolti. Ma in Teatro si può vivere tutto ciò e rimanere fiduciosi e coraggiosi e continuare a credere che si possa affrontare la vita».