Al Teatro Sala Molière di Pozzuoli, diretto da Nando Paone, è andato in scena “Il Grande Inquisitore – Action One” (da “I Fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij) con Roberto Azzurro, per la regia di Sergio Sivori, con le musiche di Tom Tea. Non si tratta della solita, pur bella, messa in scena del testo dell’autore russo ma di un grande lavoro aperto, costruito sull’azione attoriale, sulla capacità di stimolare immense domande.
Sergio Sivori racconta ai lettori di NT il suo progetto.
Come ha immaginato la messa in scena del testo?
“Si tratta di un progetto al quale pensavo da molti anni. Non amo il teatro che tende ad affermare ma quello che pone interrogativi: il Grande Inquisitore è una grande domanda. È insopportabile il teatro di chi ha grandi certezze e le dispensa dal pulpito. L’allestimento è una novità assoluta, più orientato verso l’autore, legata al concetto di performer. Roberto mette in campo anche la sua biografia, creando un’intimità con il pubblico, e la struttura è fatta di azioni fisiche. L’Inquisizione è una sorta di macchina attoriale attraverso la quale passa un percorso personale dell’attore. Il pubblico alla Sala Molière ha assistito all’Action One e sto già lavorando all’Action Two, con una modifica strutturata, che andrà in scena il prossimo 3 marzo a Castel dell’Ovo, per “Wunderkammer”. Non c’è uno stravolgimento dell’opera ma un progetto aperto, un approfondimento dei dettagli, e si va avanti nella ricerca senza stancarsene – con un’Action Three, un’Action Four…”.
Sempre bravissimo, Roberto Azzurro dà corpo al Grande Inquisitore. Avete già lavorato insieme in passato?
“Con Roberto abbiamo lavorato assieme ad Antonio Calenda, in un teatro convenzionale di altissimo livello, una bellissima parentesi romana. Da sempre con l’attore ci guidiamo a vicenda, in un percorso nell’ignoto in un procedere cauto che porta alla luce sensazioni nascoste da attuante, molto autentico. Io rifiuto il teatro autoreferenziale, cercando di costruire un rapporto autentico. Occorre depurare la coltre teatrale: non possiamo essere i “colleghi” di Dostoevskij che regala un materiale enorme. Possiamo solo veicolare una possibilità, ponendo in rapporto i partecipanti e un attuante. Il lavoro è un work in progress. Nella lingua di Roberto vi sono intrusioni partenopee, sintesi confidenziale che non offende (“’mo va truvann’ a Crist’ int’e lupine”). Fanno parte della nostra cultura apoteosi e derisione del sacro. Si creano anche contrasti molto forti, vicini ad un teatro eurasiano. Roberto è un attore danzante, in azione. Non impartisce lezioni”.
La grande domanda che si pone è quella della gestione della libertà.
“In un’epoca di fallimenti, di grandi ipocrisie, è bene inserire un principio di pentimento e parlare di libertà dell’uomo, di libero arbitrio. Nella Costituzione americana si parla di diritto alla felicità che in sé non vuol dire nulla ma che sopravvive nell’utopia. La liberà è quella spirituale, dell’anima. Viviamo già chiusi in mille confini e ciò che conta è solo la libertà interiore”.
Freud analizzò la personalità di Dostoevskij definendolo nevrotico: ben venga, per i grandi letterati, la nevrosi.
“Si, e aveva ragione. Il teatro che si traveste nella produzione di Dostoevskij è lo stesso che leggiamo in Kafka, che propone problematiche universali. Credo che “Il Grande Inquisitore” lo introduca come un ritorno al futuro, una premonizione, in un discorso sottile che si adatta a tutti i tempi. Leggere Giordano Bruno, Dostoevskij e Kafka, pilastri della letteratura, significa ricercare la centralità dell’uomo, e oggi ciò è più necessario di ieri. Abbiamo smarrito il ricordo di come si possa attuare la democrazia. Non siamo in grado di gestire il libero arbitrio”.