di Alberto Tuzzi
Sicilia, Anni 40. Salvatore Giuliano (Pietro Cammarata) entra nell’EVIS, l’Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia, movimento clandestino finanziato da americani, inglesi e latifondisti mafiosi che gode di largo seguito popolare per il diffuso risentimento verso il potere di Roma. Sciolto l’EVIS, Giuliano ritorna all’attività di fuorilegge e dopo la vittoria elettorale nel ’47 del “Blocco del popolo”, su mandato dei latifondisti mafiosi, massacra con la sua banda a Portella della Ginestra contadini e lavoratori inermi alla festa del 1° maggio, una delle prime stragi dell’Italia repubblicana.
La guerra dello stato contro Giuliano, ormai senza quartiere, termina con la sua uccisione da parte dei carabinieri il 5 luglio 1950 a Castelvetrano (Trapani) ma la versione ufficiale non convince tutti, come attesta “L’Europeo”, che pubblica l’inchiesta del grande cronista Tommaso Besozzi “Di sicuro c’è solo che è morto”, entrata nella storia del giornalismo italiano. Durante il processo alla banda di Giuliano per la strage di Portella della Ginestra, la magistratura davanti ad un muro mafioso di silenzi e omissioni non riesce a far luce sulla strage e sui mandanti, nonostante i colpi di scena come la confessione del braccio destro del boss, Gaspare Pisciotta (Frank Wolff), che rivela di averlo ucciso e l’avvelenamento in carcere dello stesso Pisciotta, seguito dalla misteriosa morte di altri mafiosi e malavitosi.

Con Salvatore Giuliano (1961) Francesco Rosi imprime una svolta netta alla rappresentazione del Sud e della Sicilia, non più secondari rispetto alla realtà italiana, ma determinanti nella definizione dei rapporti tra potere legale e illegale, tra sistemi politici diversi e antagonisti. Il film è un’analisi lucida dell’ascesa del potere mafioso e delle sue collusioni nazionali e internazionali, sorta di contro-storia della Sicilia dalla Liberazione agli anni ’60 che pone inquietanti e ancora irrisolti interrogativi sul complesso intreccio di arretratezza economica, violenza politica e mafia nel quale si muove il celebre bandito, spogliato di ogni mitologia.
Con la sceneggiatura dello stesso Rosi, di Enzo Provenzale, di Suso Cecchi d’Amico e di Franco Solinas, la suggestiva fotografia di Gianni Di Venanzo e il montaggio serrato di Mario Serandrei, il film è uno dei modelli più imitati nel genere del film inchiesta in Italia, perfetto mix di finzione e documentario, come quasi nessuno dopo è riuscito a fare in Italia. Se il personaggio di Giuliano resta un mistero insoluto, le ipotesi sul complesso nodo economico-politico che ha portato all’affermazione della mafia, sono presentate con grande chiarezza e in modo cinematograficamente esemplare, raggiungendo forse l’apice della parabola registica di Rosi, che realizza un modello per il genere del film-inchiesta, che ancora oggi scuote le coscienze, uno dei momenti più alti del cinema italiano.