
Lo hanno definito un “cabaret” come quello degli Anni Sessanta in Italia o quello tedesco. “Perché l’azione si svolge per scketch, raccontando varie storie”, spiega Ottavia Piccolo, protagonista con Vittorio Viviani dello spettacolo L’arte del Dubbio di Stefano Massini, in scena al teatro Nuovo di Napoli fino a domenica 17 febbraio. Accompagnati dal vivo dal polistrumentista Nicola Arata, che esegue musiche di Cesare Picco, sono diretti da Sergio Fantoni.
Il dubbio, la verità, il peso delle parole sono i temi della messinscena in cui agiscono diversi personaggi?
“Sì, siamo Adamo ed Eva, stuzzicati dal serpente che ha la voce di Gioele Dix; poi io un avvocato e lui un rapinato; oppure un magistrato e un pentito; due americani degli Anni Trenta, impegnati nella pubblicità. Ma più che i personaggi, ciò che davvero conta sono le parole che diciamo”.
Cioè?
“Stefano Massini si è ispirato al libro omonimo di Gianrico Carofiglio e a un altro suo scritto “Manomissione della parola”, quindi ha aggiunto le proprie riflessioni su dubbio e verità ed è venuto fuori questo testo che affronta i due grandi temi e le conseguenze che ne derivano. Tratta l’attualità con un pezzo sulla nota vicenda della Thyssen, per analizzare come le parole possono uccidere. Inserisce un brano sull’assassinio di Don Peppino Diana e dimostra come il dubbio, solitamente usato in maniera positiva, come stimolo, diventi qui, invece, un elemento di distruzione. E’ un modo che mi ha molto interessata”.
Come reagisce il pubblico solitamente?
“Ci è grato, è contento, gli spettatori ci ringraziano perché dicono che li facciamo pensare. Del resto Fantoni ha creato uno spettacolo gradevole. Serio ma con leggerezza”.
Il legame con Stefano Massini è forte. Ricordiamo “Lettera a Dio”, “La commedia di Candido”.
“C’è grande sintonia tra noi. E’ il quarto spettacolo che realizziamo insieme. Oggi è difficoltoso portare autori nuovi, il mercato e la miopia dei teatranti sono tali che non è facile proporre nomi poco conosciuti, ma lui è preparato e bravo”.
Ha affrontato argomenti difficili che riguardano la shoà, la Birmania, la Creazione, la condizione della donna e tanto altro: qual è il ruolo del teatro?
“Di approfondimento. Può essere un grande momento di riflessione, cosa che non possono né il cinema né la televisione, deve far riflettere, ha ritmo e profondità”.
Dunque non crede alle etichette: teatro civile, politico…
“No. Tutto è politica, anche il teatro perché parla di noi, degli esseri umani. E’ fatto di sangue, voce, parole. Il teatro è uno solo: o è bello o è brutto”.
Che consiglio darebbe a un giovane?
“Bhè, non è facile, però è importante sempre avere delle passioni. E vale anche per chi si dedica alla mia stessa professione. Certo, oggi a chi è senza lavoro sembrerebbe un’utopia eppure, con la forza dell’amore, si riesce in tutto”.
Ha altri progetti?
“Ho finito le riprese della fiction di Rai Uno “Una buona stagione”, in cui sono il capo di una famiglia di viticultori. Andrà in onda in primavera”.
Un ritorno al piccolo schermo, dopo parecchio tempo.
“E’ un mezzo importante e ogni tanto val la pena di esserci, anche se ce la metti tutta, ma non sai mai che cosa ne viene fuori”.
Che cosa pensa di Napoli?
“E’ una città meravigliosa. Ho tanti amici e ci sto sempre volentieri”.