Luigi De Filippo

Angela Matassa

A settant’anni dalla prima rappresentazione, che consacrò i fratelli De Filippo, Luigi con la sua compagnia propone La fortuna con l’effe maiuscola di Eduardo e Armando Curcio, in scena al teatro Delle Palme di Napoli dal 12 al 22 novembre, la quinto commedia inserita  nel progetto Casa De Filippo.

“Ho pensato di rappresentare i testi umoristici di Eduardo, Titina e miei per portarli all’attenzione del pubblico nazionale, – spiega l’attore e regista – perché non tutti li conoscono, e soprattutto i giovani dimostrano di apprezzarli”.

Ma che cos’è l’umorismo?

“E’ la parte più agra e amara della comicità, quella che fa riflettere, che ha nobiltà d’intenti, non è il divertimento fine a se stesso”.

Di quanti testi è composto il progetto?

“Questo non lo so, ma continuerò a riscoprire il nostro ricchissimo patrimonio perché mi accorgo che il pubblico gradisce e m’incoraggia. Le nostre commedie affrontano temi sempre attuali, trattano della famiglia, di amore, gelosia, invidia, voglia di potere. Sentimenti che sono nel cuore dell’uomo: noi ne abbiamo fatto il nostro teatro”.

Questa è una commedia degli equivoci che tratta della fortuna capitata a un poveraccio che, però non potrà riceverla per strani motivi. Lei ricopre il ruolo che fu di Eduardo, come ha realizzato la messinscena?

“Pensando ai gusti del pubblico, cerco di realizzare spettacoli immediatamente comprensibili. L’azione si svolge in un basso napoletano,  è tutto molto semplice, come le scene di Salvatore Michelino. Fin dall’apertura del sipario gli spettatori applaudono, forse per la semplicità, per il genere, per il nostro nome. Non so”.

Secondo lei il teatro è in crisi?

“Tra le arti è considerato la cenerentola. La gente crede che l’attore sia quello che vede in tv, tronista e velina, non immagina nemmeno la fatica che c’è dietro questo mestiere: lo studio, l’intelligenza, l’impegno”.

Allora non c’è speranza per il futuro?

“Il teatro napoletano lo guardo con ottimismo, infatti anche in questo periodo di crisi nel campo dell’arte siamo all’avanguardia in tutti i settori. Abbiamo una tradizione che altri non hanno, pur se altrove ci sono artisti che hanno delle cose da dire. Oltre alla mia famiglia, non dimentichiamo Scarpetta, Petito, Viviani”.

Che cosa pensa dei comici d’oggi?

“Che sono simpatici. Noi attori, invece, siamo bravi”.

E’ dunque saltata una generazione?

“I talenti non nascono come i broccoli. Ci vuole tempo. Attualmente, ci sono giovani che si esprimono nell’innovazione e nella ricerca. Sarà il pubblico a scegliere, è lui l’arbitro e si deve conquistare”.

E i suoi, allora?

“Me li cresco un po’ alla volta scegliendoli in moltissimi provini. Li valorizzo, credo in loro e nell’amore che hanno per il teatro. Basta educarli al vero mestiere. Anzi, a questo proposito, mi piace segnalare il premio Festival Borgio Verezzi assegnato a Paolo Pietrantonio, come non protagonista, che interpreta il ruolo che all’epoca fu di mio padre”.

Che consiglio darebbe a chi voglia fare questo lavoro?

“Di frequentare il teatro e vedere tanti spettacoli. Cercare di lavorare dove c’è un maestro. Mettersi tra le quinte e rubare il mestiere. Così siamo diventati bravi allievi anche noi. E’ come stare in una bottega, in fondo il nostro è  artigianato, qualche volta diventa arte. La cosa importante è la parola, il testo, l’attore è solo un tramite. Il teatro deve emozionare, arrivare al cuore”.

Che cosa si aspetta da Napoli?

“Vengo nella mia città sempre con grande gioia. Le devo molto, è per me fonte d’ispirazione. Speriamo che vada bene come sempre”.

Ma lei si sente più attore o autore?

 “Ho  sempre amato, oltre che recitare, scrivere per il teatro. Ho scritto dieci commedie e le ho rappresentate tutte con grande successo. Amo definirmi autore per vocazione e attore per necessità! La mia prima commedia l’ho scritta a ventiquattro anni, la consegnai in lettura a mio padre per averne un parere. La commedia si chiamava Fatti nostri e raccontava tre storie d’amore al Sud, al Centro e al Nord d’Italia. Mio padre però tardava a darmi un giudizio ed io temevo che sarebbe stato negativo. Invece un paio di giorni dopo trovai sulla mia scrivania un suo biglietto che diceva: ‘Caro Luigi, la tua è una bella commedia. Vorrei averla scritta io. Papà!’  Per me fu una gioia immensa. Pensai di aver superato un esame di laurea. E invece poi ho capito che quello era solo il primo gradino di una scala lunga e faticosa”.

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