L’ultima volta che siamo stati bambini

Renato Aiello

Il debutto di Claudio Bisio dietro la macchina da presa è un film leggero, a tratti scanzonato, ma che fa pensare. E riflettere, se la mente viaggia nel tempo dagli anni della Seconda Guerra Mondiale e torna nel presente dell’inferno ucraino e del disastro a Gaza. L’ultima volta che siamo stati bambini è tratto dall’omonimo libro di Fabio Bartolomei, Edizioni e-o. Quest’opera prima si inserisce nel solco tracciato negli anni ’90 prima da Faenza con Giona che visse nella balena e poi dal Benigni de La Vita è Bella, punto di riferimento immediato.

La storia di Vanda, Italo e Cosimo sul finire dell’estate del ’43 racconta l’ultima volta in cui sono stati bambini. Innocenti e puri in un mondo devastato dall’orrore che a ottobre avrebbe bussato anche alle porte di Roma. E del Ghetto ebraico più precisamente, col rastrellamento di tutti gli ebrei di Roma, la più grande comunità giudaica della penisola.

Già emarginati con le infamanti leggi razziali controfirmate dal Re d’Italia, agli israeliti d’Italia toccò l’ultimo atto di un disegno criminale senza pari: la deportazione nei campi, stipati come bestiame sui treni.

Proprio su uno di quei binari che da Roma salivano al Nord Italia, fino in Germania, si mettono in cammino i tre giovani protagonisti: un’orfanella vivace e irrequieta, il tenere figlioletto di un oppositore del regime mandato al confino e il secondogenito di un gerarca fascista, interpretato da Bisio. La missione è chiara e precisa: ritrovare Riccardo, il loro amichetto ebreo ariano, un ossimoro per quei piccoli balilla dell’epoca, ma solo perché biondo.

Sulle loro tracce si mettono poi il primogenito del gerarca, fratello maggiore del leader dei tre fanciulli, e la suora del convento dell’orfana. Li interpretano rispettivamente Federico Cesari, già visto su Netflix tra Skam Italia e Tutto chiede salvezza, e Marianna Fontana, reduce da Indivisibili di Edoardo De Angelis e Capri Revolution di Mario Martone. Il loro incontro – scontro, e tutto quello che deriva dalla ricerca dei pargoli tra locande e plotoni di esecuzione, smorzano senz’altro i toni cupi del film.

Insieme alla spensieratezza e all’ingenuità dei più piccoli, del tutto inconsapevoli della realtà che li circonda e completamente incapaci di immaginare il destino toccato al loro amico deportato. Si rivedono gli stessi occhi candidi del figlio di Roberto Benigni nel film premio Oscar che giocava sull’illusione del carro armato, premio ambito nel lager di turno.

A stemperare i contorni della tragedia che aleggia ci pensano lo spirito gregario di gruppo, le fantasie infantili, i giochi con le fionde e le tende, e i sogni un po’ naif di quell’età. La verità emergerà per tutti solo alla fine, violenta e brutale come un pugno allo stomaco.

L’epilogo, degno del Bambino col pigiama a righe, lascia sgomenti e quasi increduli in quella stazione ferroviaria poi corrosa dal tempo. La regia di Bisio è ancora acerba e incerta, annaspa a tratti, ma regala una pellicola difficile da dimenticare.

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