Madre Luna di Fortunato Calvino, presentato al teatro Nuovo di Napoli, è come sempre un testo impegnato.
Un ricordo teatrale di Paolo Castaldi e Luigi Sequino, i due giovani uccisi l’11 agosto del 2000 a Pianura, per errore, come tanti altri.
Il breve racconto è un oratorio laico per le madri colpite da tragedie per le quali non vi è consolazione, non vi può essere giustizia. Come si fa a perdere un figlio colpevole solo di essersi fermato nel posto sbagliato al momento sbagliato per chiacchierare con un amico? Come si fa ad affrontare i media, spietati, troppo spesso a caccia di connivenze, di scheletri nell’armadio? Ci sono spirali che vanno spezzate con il coraggio della denuncia, con la forza dell’onestà. E’ stato calunniato, a suo tempo, anche Don Diana, accusato di amare giovani ragazze, e così è stato fatto per altre vittime innocenti di camorra. La madre, una sempre bravissima Antonella Morea, non si arrende – sarà “la corona di spine” degli assassini del figlio. Già sola, abbandonata di fatto da un marito assente che fa i turni di notte al cantiere, deve ora fare i conti con l’assenza. Cita Sant’Agostino nell’atmosfera pesante rafforzata da una scenografia fatta di croce e sudario, dalle intense musiche di Paolo Coletta.
Madre Luna, spiega l’autore-regista, “è un intenso omaggio alle madri che hanno perso un proprio caro in guerre ordite da altri, con l’auspicio che dal dolore possa nascere un futuro migliore per tutti i giovani di questa tormentata città. E ricordare le vittime della criminalità organizzata è un modo per fare memoria”.
L’unica critica che si può muovere ad un intenso, straziante lavoro è quella di aver staccato, da parte dell’autore, le due parti del testo, l’una più surreale, immaginifica, l’altra dura, di cronaca.
Raggiunto, comunque, l’intento di ricordare le vittime innocenti, l’urlo di dolore dei loro cari ai quali rimane il diritto-dovere di alzare la voce. Perché tanti li vorrebbero muti.