Da più parti ci si chiede perché il cinema italiano oggi non funziona. Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto soffermarsi su cosa s’intenda per “funzionare”. Se vogliamo soffermarci solo sugli incassi al botteghino, potremmo con una certa facilità smentire l’affermazione dalla quale la domanda ha origine. Negli ultimi anni, infatti, abbiamo assistito alla scalata, da parte di quella che impropriamente potremmo definire l’attuale “commedia all’italiana”, della classifica dei film più visti nelle sale nostrane, surclassando in molti casi persino pellicole provenienti da oltreoceano (anche se, a onor del vero, va detto che di recente neanche il cinema americano sta godendo di ottima salute). Commedie dalla spiccata leggerezza come Maschi contro Femmine (e viceversa), Benvenuti al Sud (e al Nord), Nessuno mi può giudicare, Che bella giornata e così via, avranno di sicuro inorgoglito i dirigenti delle rispettive case di produzione, per i risultati ottenuti; ma, quanto a valore artistico, “prodotti” come questi lasciano non poco a desiderare.
Se, invece, vogliamo interrogarci sul perché una kermesse come il Festival di Cannes, che punta di certo alla qualità, abbia alquanto denigrato il cinema italiano all’interno del concorso di quest’anno, allora il discorso si fa assai più complesso. A parte Bernardo Bertolucci, che presenterà il suo ultimo lavoro- Io e te– come film fuori concorso, e Dario Argento, che si è guadagnato la proiezione di mezzanotte del suo Dracula 3D, sarà il regista Matteo Garrone, con un film ispirato al Grande Fratello dal titolo Big House, l’unico italiano a concorrere, insieme a nomi illustri come Cronenberg e Loach, per l’ambita Palma d’Oro.
Ciò che manca dunque al cinema nostrano è quel carattere fortemente identitario che sia in grado di coniugare successo al botteghino e valore artistico: da una parte ci sono le commedie biecamente commerciali che traggono ispirazione soprattutto da quelle americane e, dalla parte opposta, le sperimentazioni che non trovano alcun seguito, né di pubblico né di sostenitori. Eppure, ad eccezione di maestri che hanno fatto storia come Bertolucci, Bellocchio, Tornatore, Moretti e altri, mosche bianche nel nostro panorama cinematografico ci sono, eccome: basti pensare ad autori, ormai affermati, come Paolo Sorrentino, Emanuele Crialese e lo stesso Matteo Garrone. Tuttavia, siamo ben lontani dall’epoca in cui erano i registi italiani (De Sica, Fellini, Monicelli…) a riscrivere i dettami del linguaggio filmico, e a inaugurare filoni cinematografici, con i quali tutti i cineasti successivi si sono poi dovuti confrontare.
Le idee non sembrano mancare, e forse il problema è da ricercare altrove: scarsi finanziamenti e risorse; un pubblico quasi del tutto diseducato a prodotti di qualità. Oppure, volendo ragionare per astrazione, sarà proprio questa società globalizzata, in cui tutto è alla portata di tutti e chiunque può diventare un artista, a non lasciare più spazio ad alcuna mitizzazione.