Girolamo De Simone pubblica il suo nuovo libro Musica sottile (Guida editori, pagg. 116, euro 10). L’autore è uno dei massimi esponenti delle avanguardie italiane legate alla musica di frontiera, pianista, elettro-performer, compositore, giornalista e scrittore. Alla presentazione tenuta presso lo Spazio Guida di Napoli , il giornalista Alfredo D’Agnese ha definito il libro come un testo di filosofia più che di musica, un libro che fa pensare, che fa male poiché mostra la musica come luogo di transito che ha annullato la proprietà.
“È molto importante essere in transito (“transito”: quello di Francesco D’Assisi) – scrive l’autore – transito nelle attività, che non diventino “le mie”, anche se talvolta bisogna scrivere de “la mia musica”. Che gli affetti siano liberi di fare, di andare. Che le case che ci ospitano, restino solo in uso. Cose che usiamo, e un attimo dopo lasciamo ad altri. Transito. Io penso di poter rinunciare in qualsiasi momento persino al far musica. Ma non a un’idea più forte: quella di compimento. Che si compia un andare/verso. Che abbia un senso, una ragione profonda”.
La musica consente l’esperienza più sottile, di trasparenza, di diluizione omeopatica, per dirla con Hahnemann e Cervelli, “messaggio infinitesimale che si coglie nell’attimo”. Eticamente al confine tra mondi o escatologicamente proiettata nell’altrove, tendente al divino, comunque ad una dimensione altra, la musica è risalita, rinascita, viaggio di scoperta. Da Satie a Brian Eno, ricordando i maestri Cage, Carter, Rieti, Grossi, Chiari, Castaldi, Cilio, si giunge ad una musica da indossare, naturale evoluzione della musica d’arredamento di Erik Satie e del suono ambient di Brian Eno. Parafrasando il dj (“io sono quel che suono”, cantava Bowie), noi siamo quello che ascoltiamo. Degli amori concettuali va colta la presenza, “il caldo che traspare negli spazi silenziosi della musica”.
Lontani dalla musica patinata e populista alla Katy Perry, Rihanna, Giovanni Allevi, è operazione positiva riscoprire la musica popolare, chiederci in quale mondo abitiamo, in quale liquido amniotico siamo immersi, dove proiettarci. La factory di De Simone, la rivista/progetto Konsequenz, ha lasciato il segno ma non appartenendo l’autore a partiti o carrozzoni, lancia sassi nello stagno della paludata industria culturale. Per raccontare la musica impalpabile, De Simone suona al clavicordo il tema di Guido D’Arezzo, una melodia del ‘700 riattualizzata da Diego Ortiz, rielabora un tema di Sayat-Nova, il poeta armeno, per raccontare il dramma di territori perennemente in guerra, del genocidio armeno. Musica esile come la voce di popoli fuori dai grandi sistemi, di genti dimenticate con le loro melodie antiche, le cui voci sono disperse come vento nel deserto. Idee, concetti diventano una dimensione spirituale e camminano insieme con la musica, per Max Fuschetto che suona con il suo oboe “Soliloquio”, una filigrana.
Come nei brani di “QÂF”, recente album di De Simone, metafora di superamento dei limiti dell’umana condizione, vi è l’anelito ad andare oltre il sé. In QÂF, nome arabo del “Monte Analogo” di René Daumal, la scalata termina a metà del guado, in una sospensione tra cielo e terra, lontano dalla falsità del mondo ma non ancora sulla cima, frontiera invalicabile. “Incontrai Giuseppe Chiari, uno dei fondatori di Fluxus – rivela De Simone – e lui mi disse prima di morire “abbiamo perso”. Io gli ribadivo invece che la battaglia condotta dagli anni ’70 per avvicinare l’ascolto ad un tipo di musica differente alla fine è passata. Una buona idea penetra da ogni spiraglio”. “Con i suoi diciannove capitoli l’autore ha costruito un libro alchemico – afferma Enzo Amato, presidente dell’Associazione Domenico Scarlatti – frutto di una ricerca pacata, che va letto al di là dei concetti tecnici”.
Nell’ultimo capitolo l’autore dispensa suggerimenti per venire incontro ai giovani musicisti di talento, per preservare il patrimonio storico culturale del territorio, sfruttando la competenza e la professionalità di chi è attivo da decenni, mettendo fine ad associazioni fittizie che per troppo tempo hanno sprecato denaro pubblico senza risultati apprezzabili. Acuta la postfazione in inglese di Daniel Varela che sintetizza l’accurata ricerca musicologica, compositiva, l’unicità di un autore che mostra come davvero un altro sentiero da percorrere sia possibile, non solo, necessario per trovare il senso.