Il Teatro San Ferdinando di Napoli apre la stagione con il debutto in prima nazionale di “Uscita d’emergenza” di Manlio Santanelli, produzione dello Stabile di Napoli, con due strepitosi protagonisti: Mariano Rigillo e Claudio Di Palma, che ne firma anche la regia. Primo testo del noto drammaturgo, andò in scena proprio nel teatro di Eduardo nel novembre dell’ ‘80, profetico, con Bruno Cirino e Nello Mascia. Insignito di svariati premi, rappresentato in Italia e all’estero, rivela i temi cari a Santanelli – incomunicabilità, solitudine, dialoghi come monologhi, incapacità di dare un senso al presente, tutto condito da sapiente ironia. Un testo che ha 38 anni ma non li dimostra, decisamente un classico nel raccontare un’emblematica storia di incomunicabilità nella Napoli sismica, sempre in pericolo di caduta (e ricostruzione) per il terremoto, nella quale si aprono faglie profonde e si vive a strati, a diversi livelli, in profondità come cave e cimiteri di ossa, all’aperto, più vicini alla luce, a case nuove, irraggiungibili.
Mirabile la scenografia immaginata da Luigi Ferrigno, che mostra una misera casa-prigione nella quale troneggia una grande lastra marmorea distesa su ruderi del Corpo di Napoli – cadute e rinascite, frammenti di storia nobile e devastazioni (politiche, sismiche?). Nell’umile dimora convivono due individui apparentemente agli antipodi, uniti piuttosto dall’incapacità di uscire dallo spazio angusto nel quale convivono, autoreclusi, abbracciandosi ad ogni scossa di terremoto. Cirillo (Mariano Rigillo) e Pacebbene (Claudio Di Palma), rispettivamente ex suggeritore ed ex sagrestano, si confrontano/scontrano con rabbia e disperazione, con cattiveria e con pietà, rinfacciandosi i reciproci fallimenti lavorativi e affettivi.
La morte incombe in questo magnifico affresco di teatro del sospetto di respiro europeo, pinteriano, beckettiano, per mostrare la disgregazione della comunicazione, lo svuotamento di senso delle parole. Rispetto del testo nella lettura di Di Palma che accentua la cupezza della storia, grottesca, surreale, attraversata dall’ironia, interpretata con grande maestria da due attori straordinari a lungo applauditi dal pubblico. Belli i costumi di Marta Crisolini Malatesta, le musiche di scena di Paolo Coletta, echi di una Napoli antica, sbiadita, come una civiltà seppellita. Forte la lettura antropologica dei riti del vivere, con le fobie, le provocazioni, le pulsioni inconfessabili: eros e thanatos a braccetto in una città tellurica dove le parole sono magma che cola e devasta o forse eruzione di nuove possibilità.