E’ una sorta di professore o narratore o relatore. Con una pesante palandrana, leggio e microfono, Giobbe Covatta racconta il futuro. Da oggi a cento anni in avanti. Quando la temperatura del globo sarà aumentata di 6 gradi e tutto sarà diverso. In scena al teatro Troisi di Napoli dal 21 al 23 febbraio, l’attore basa la sua creazione su documenti scientifici autentici. “Ma non ho voluto allontanarmi troppo nel tempo – dice – perché siamo portati ad interessarci soltanto alle cose che ci riguardano. Perciò, riusciamo a immaginare solo un mondo non troppo lontano, quello abitato dai nostri eredi”. Insomma, i guai li facciamo lo stesso, pensiamo soluzioni, inventiamo risposte per evitare la catastrofe che, però, sarà inevitabile e il Pianeta sarà sovrappopolato, semidistrutto, surriscaldato: un disastro ambientale. “Questo spettacolo – spiega l’autore-attore-regista – E’ un racconto comico sulla situazione. Non ho intenzione di aggredire o drammatizzare troppo le cose. Immagino che cosa ci inventeremo, se i partiti esisteranno ancora, quali i leader. Che cosa succederà nel 2041 o nel 2127, se la crisi e i disoccupati ci saranno. Ipotizzo come i discendenti si adatteranno alle condizioni che gli abbiamo lasciato”. Il tutto condito, o meglio accompagnato, dalla chitarra dal vivo e dalle musiche originali di Ugo Gangheri. “Sono piuttosto rumori, voci, clacson”. Ironico, comico, divertente, Giobbe Covatta avverte sulla satira: “Va sempre bene per denunciare storture e ingiustizie, ma… ma non bisogna confondere le lingue. Una cosa è la satira, ben altro la politica, il guaio succede quando si mischiano i linguaggi o i ruoli. A Pulcinella non sarebbe mai venuto in mente di fare il Re. Il giullare avverte, mette in evidenza i problemi, ma è il sovrano a risolverli”.
Nato a Taranto per caso (il padre, ischitano, era nella Marina e viaggiavano spesso), ha studiato e vissuto a Napoli. “La cultura napoletana mi appartiene tutta e mi riconosco in essa, nel positivo come nel negativo. Guardandola da fuori Napoli appare una città un po’ stantìa, che vive ancora nel mito della tradizione, nel folklore esasperato, ma c’è un’opinione pubblica stanca della mancanza di regole, che s’inquieta, scalpita e vuole cambiare le cose. La cartolina classica è ammuffita. Io gioisco e soffro. Provo piacere, ma anche ansia e indignazione, come tutti i napoletani”.