L’epopea del western all’italiana
di Alberto Tuzzi
Il cinema western è il cinema USA per definizione, con la sua narrazione mitica della frontiera ma, da sempre, anche in Europa si girano film western; il boom è negli anni Sessanta, con la realizzazione di decine di pellicole, ma è il cosiddetto “western all’italiana” o “spaghetti western”, a raggiungere il successo mondiale.
Il cinema italiano commerciale negli anni Sessanta, basato sui generi comico, commedia, mitologico e horror, dal 1964 ha successo anche con il western nostrano di “Per un pugno di dollari” di Sergio Leone. Leone, regista tra gli anni Cinquanta e Sessanta di seconda unità di molti film e del film mitologico di successo “Il colosso di Rodi”, gira nel 1964 “Per un pugno di dollari”, produzione a basso costo e adattamento apocrifo di “Yojimbo – La sfida del samurai”, di Akira Kurosawa, 1961, con costumi e pistole già usati nel contemporaneo western “Le pistole non discutono”, di M. Caiano. Il protagonista è lo sconosciuto attore americano Clint Eastwood, che diventa subito un’icona.

Il pubblico nota immediatamente il film di Leone, che riscuote rapidamente un successo mondiale, grazie alla novità dello stile e della vicenda: una storia di vendette e ansia di potere, tra paesaggi desertici e villaggi inospitali, con il protagonista, che non rappresenta più il bene, ma incarna astuzia e crudeltà. Il regista, grazie al successo e ai consistenti budget della produzione, conclude con Eastwood la “trilogia del dollaro” con “Per qualche dollaro in più”, 1965, e “Il buono, il brutto e il cattivo”, 1966, e crea una mitologia non più legata all’epopea della frontiera americana, ma attinta liberamente da fonti diverse e definisce uno stile imitato da innumerevoli epigoni.
Nel 1968, con “C’era una volta il West”, Leone dimostra una notevole capacità di cantore epico, affrontando il mito della costruzione della ferrovia. Il successo è dovuto anche alla regia, che procede per contrasti, frammentazioni, evidenza per i dettagli, utilizzo di un montaggio nervoso, sincronizzato alla musica innovativa di Ennio Morricone.
Tra i numerosi imitatori di Sergio Leone, alcuni con pseudonimo americano, da ricordare Giorgio Ferroni, Sergio Sollima, Sergio Corbucci, Duccio Tessari, Enzo Barboni, Tonino Valeri. Tutti accentuano i toni della violenza e della brutalità, condita spesso da un pizzico di ironia. Il western italiano, richiesto ormai in tutto il mondo, rappresenta tra il ‘64 e il ‘69 un terzo dell’intera produzione cinematografica; i suoi interpreti, spesso attori di secondo piano come Giuliano Gemma, Franco Nero, Gianni Garko, diventano famosi, mentre dall’estero arrivano nomi più o meno noti, che sperano di risollevare la propria carriera, come Lee Van Cleef, Charles Bronson, James Coburn, Jack Palance, Eli Wallach.

Se molti film sono di routine, con budget irrisori, girati nelle campagne romane o in Spagna, con eroi (Django, Sartana, Sabata…) e storie ormai serializzate, girano western anche registi “seri” come Carlo Lizzani e Florestano Vancini. Il genere recepisce anche le tensioni politico-sociali che attraversano l’Italia nella seconda metà degli anni Sessanta, con riferimenti al Messico, al Terzomondismo e alla rivolta contro il potere, in film come “La resa dei conti”, 1967, di S. Sollima; “Il mercenario”, 1969, di S. Corbucci; “Queimada”, 1968, di G. Pontercorvo: “Quién sabe?”, 1966, di D. Damiani. Anche Leone ambienta “Giù la testa”, 1971, nel Messico della rivoluzione. Negli USA si inventa la definizione dispregiativa di “spaghetti western”, ma il genere conquista il mercato americano e, con il suo rovesciamento di temi e stili del vecchio genere, ispira molti registi che rivitalizzano il western USA. Un capolavoro come “Il mucchio selvaggio” di S. Peckinpah, 1968, non sarebbe realizzato senza l’innovazione dello spaghetti western.

Agli inizi degli anni Settanta il genere è ormai in crisi, con il pubblico stanco di film con trame ormai inconsistenti. La svolta avviene con “Lo chiamavano Trinità”, 1970, di E. B. Clucher (E. Barboni), con Terence Hill e Bud Spencer, commedia western in cui pugni indolori e situazioni tipiche delle comiche mute sostituiscono spari e violenza; il film dà il via a un nuovo filone, la parodia, in cui il rovesciamento comico dimostra l’esaurimento del genere, riscuotendo un enorme successo tra giovanissimi e famiglie, allontanatisi dal western, proprio per l’uso eccessivo della violenza.
Il gran finale del western all’italiana è rappresentato da due ottimi film, malinconiche testimonianze di un’epopea in dissoluzione, che concludono gloriosamente un periodo iniziato dieci anni prima: “Il mio nome è Nessuno”, 1973, di T. Valerii e “Keoma”, 1975, di Enzo G. Castellari.