Quella rabbia repressa che trasforma in ‘liùne’

Maresa Galli

Al Teatro Acacia di Napoli è andato in scena, “Bufale e Liùne”, una produzione Nest Napoli est Teatro / Diana O.r.i.s, su riadattamento di Enrico Ianniello, in unico testo di due terzi della “Trilogia degli animali” di Pau Mirò (Bufale, Liùne e Giraffe).

La storia, ambientata dall’autore catalano nel quartiere Raval di Barcellona, è qui spostata alla periferia est di Napoli, a San Giovanni a Teduccio. Il buio ambiente della lavanderia di quartiere è spezzato da intermittenti fasci di luce, realizzati dal light designer Luigi Biondi. La voce narrante di Francesco Di Leva recita, in napoletano, monologhi tratti da “Bufale”, tragiche vicende familiari. “Bufale è un racconto sui vincoli familiari in una educazione alla sopravvivenza. – spiega Ianniello – In questa famiglia di Liune, la violenza è sommersa, sempre sul punto di scoppiare. È una violenza nei gesti, nelle parole, negli sguardi. In questi due testi provo a raccontare diverse prospettive dei vincoli familiari, ma anche squilibri, aggressività e solitudine generati dalla crescita delle grandi città come Barcellona o Napoli”.

Una scena (foto di Carmine Luino)

Una tragedia sconvolge la famiglia proprietaria della lavanderia: la scomparsa del piccolo Max, il figlio di 9 anni uscito di casa e non più tornato. Ciò provocherà la paralisi della sorella Sara (Alessandra Mantice), afflitta da sensi di colpa, che conduce i suoi stanchi giorni su una sedia a rotelle, vestita da ballerina classica.

Qui subentra l’azione scenica di “Liùne”, con l’evento di rottura dei precari equilibri familiari. Una notte si precipita in lavanderia il giovane Davide (Adriano Pantaleo) che indossa una camicia sporca di sangue e chiede a Sara di lavarla subito. Entrano in scena il padre di Sara (Stefano Meglio), la madre (Alessandra Borgia) che parla della sfortuna accumulata anche con la vincita di una piccola vincita alla lotteria, infine il commissario (Giuseppe Gaudino), ambiguo e disposto a farsi corrompere, che indaga sull’assassino di Vincenzo, spacciatore di quartiere. La famiglia protegge Davide, agli occhi di tutti colpevole dell’omicidio (a poco servono le sue ragionevoli spiegazioni di innocenza), solo a patto che si fidanzi con Sara, entrando a far parte del branco, familismo amorale di banfieldiana memoria.

Nei momenti di maggiore pathos canzoni quali “Frida”, “Il cielo in una stanza” e “Core ‘ngrato” sono vibrazioni emozionali. Interessante, come in tutti i lavori teatrali di Mirò, è l’intreccio di sentimenti ambivalenti, di luci ed ombre, di abiezione e riscatto, lontano da buonismi e finzioni, l’ambiente coprotagonista delle storie. Lo spiazzamento finale della storia, egregiamente interpretata dagli attori ben diretti da Giuseppe Miale di Mauro, non redime, non salva ma mostra tutta la complessità della mente umana che troppo spesso si “adatta” alle tragedie della vita con la rimozione, con l’immobilismo, con la violenza psicologica.

 

 

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