La commedia musicale “Diario di viaggio di un americano a Parigi”, che si avvale di coreografie di Luigi Martelletta, racconta la scoperta della Parigi anni Venti di un giovane artista americano. Perfetta la scenografia che è pura arte contemporanea, con raffigurazioni pittoriche che ricordano l’impressionismo e i primi bagliori dell’esistenzialismo. Opera musicale dal sapore cinematografico, riporta alla memoria il leggendario film di Vincente Minnelli con Gene Kelly e Leslie Caron, indimenticabile per le musiche di George e Ira Gershwin. Libretto ed elaborazione drammaturgica dello spettacolo, presentato dalla Compagnia Nazionale Raffaele Paganini e dalla Compagnia Almatanz, sono di Riccardo Reim; le belle scene e i costumi sono di Giuseppina Maurizi. Il balletto è un omaggio ai colori e alle emozioni prodotte dall’arte di Toulouse-Lautrec, Dufy, Renoir, Van Gogh, Rousseau.
An American in Paris è una sorta di poema sinfonico che racconta l’anima di una capitale ricca d’arte, di fermenti culturali, di vita. Splendido esempio di jazz sinfonico, “Rhapsody in Blue” rimane il simbolo dell’America sognante ed ambiziosa dei “Roaring Twenties”, alle soglie della Grande Depressione. Lo spettacolo inanella autentiche perle gherswiniane e non solo: “The Man I love”, “Summertime”, “Love is here to stay”, “Un Americano a Parigi”, “Rialto Ripples”, “Want’ em you can’t get em”, ma anche i classici “Stormy Weather”, “Moonlight Seranade”, “Take Five”, “I’ve got rhythm”, “Valentine” di Maurice Chevalier.
Una parentesi dolce e sensuale, molto intensa, è quella di Raffaele Paganini, giovane Gershwin, e della fidanzata nel momento della separazione, sottolineata da una magica “Don’t explain”. E Paganini è, come sempre, sublime, da sogno, presenza scenica che unisce in sé il rigore e la serietà della grande tradizione della danza classica con l’espressività dell’attore, sorridente e solare. Un bel lavoro nella non facile lettura di un classico del cinema e della musica che, per diventare opera musicale, ha richiesto un sapiente collage.
“Un Americano a Parigi – George Gershwin: diario di un viaggio”, l’opera musicale prende spunto anche dalla versione cinematografica di Vincente Minnelli…
“All’opera originale abbiamo aggiunto l’elemento biografico, una sorta di diario di viaggio del compositore americano che si innamorò della musica di Maurice Ravel e della vita della Parigi degli anni ’20. Una capitale culturale nel periodo impressionista, raccontata con immagini pittoriche sfogliate come fossero per l’appunto un diario. Naturalmente l’opera di Gershwin, che prevedeva in tutto sedici minuti di balletto, è stata arricchita con musiche su misura per un grande, accurato collage. Basti pensare che solo per le luci ha lavorato un art designer che ha seguito per trenta giorni lo spettacolo. Il corpo di ballo è composto da otto danzatori, tutti primi ballerini, tre uomini e cinque donne, bravissimi e giovani. Il pubblico rimane affascinato anche dal loro cambio di costumi, circa sessanta/settanta”.
“Un Americano a Parigi” rientra nella rassegna “I Teatri della Danza”, giunta alla sua quinta edizione. Oltre alla consolidata manifestazione l’organizzatore, direttore del Circuito Campano della Danza, Mario Crasto De Stefano, sostiene che i tagli al Fus rischiano di lasciare alla danza solo due milioni di euro per tutta l’Italia: è un dato più che preoccupante: cosa ne pensa?
“Tra le discipline artistiche il compartimento danza è quello in più grave crisi. Amo dire che il petrolio dell’Italia è la cultura; nel nostro paese non manca, ma il problema è rappresentato dalle raffinerie, ovvero dagli organi preposti a raffinare questa fonte di ricchezza. Se giriamo il mondo troviamo tanti bravi ballerini italiani mentre noi diventiamo sempre di meno e dunque anche a livello politico (che sia un giochino?) quando chiediamo impegni per la categoria contiamo sempre meno. Chiedo ai media, a tutti i lavoratori del mondo dello spettacolo, aiutateci ad aiutarci. Non lo chiedo per me stesso che ormai a poco più di cinquant’anni potrei anche chiudere; il mio interesse è rivolto ai giovani, al futuro della danza che ha ancora tanto da dire, da sperimentare. Il mio è un grido calmo ma forte: forse se i nostri rappresentanti politici amassero la danza tutto sarebbe diverso… Eppure basterebbe così poco…”.
Dopo la danza classica lei è approdato al musical: come si è trovato in questo genere?
“A trentasei anni mi sono ritirato, lasciando la danza classica di repertorio. In quel momento mi sono arrivate le proposte giuste, i musical con Saverio Marconi e non solo: “Un Americano a Parigi”, “Cantando sotto la pioggia”, “Sette spose per sette fratelli”, “Dance”. Tengo a sottolineare però che sono musical balletti; quando me ne hanno proposti altri senza danza, sulla scia del successo, ho dovuto dire di no. Bisogna anche specificare che in Italia non facciamo veri e propri musical ma commedie musicali ed è questa la nostra forza”.
Lei ha partecipato a famosi programmi televisivi: “Fantastico”, “Il cappello sulle ventitré”, “Al Paradise”, “Europa Europa”: non trova che oggi il livello delle coreografie degli attuali spettacoli in tv siano più carenti di quelli di un tempo? A cosa è da attribuirsi?
“Semplicemente al fatto che si tratta di format. La danza in quanto tale va vista a teatro. Ho dato io il cattivo esempio lavorando con Oriella Dorella in “Fantastico 2”. Il coreografo del programma era Mario Pistoni, primo ballerino dei teatri alla Scala di Milano e dell’Opera di Roma. Anche in questo caso basterebbe così poco, semplicemente che gli autori televisivi conoscessero la danza. Ma si occupano di format predeterminati”.
E’ stato docente nel programma “Academy”, con Luciana Savignano, una scuola di classe. Non crede però che i talent show possano inviare falsi messaggi ai giovani? Crede sia un bene che oggi tutti vogliano danzare?
“Credo che Academy sia stata una trasmissione di ottimo livello. Tuttavia il messaggio dei format televisivi è sbagliato: i giovani dovrebbe puntare anzitutto sulla disciplina. Quando fummo chiamati per il programma noi insegnanti sapevamo fare solo questo: danzare. E così dovrebbero fare oggi i nomi: farsi sentire dalle istituzioni, senza pensare a coltivare il proprio orticello, ma pensando alle nuove leve della danza. Oggi si creano situazioni assurde con ballerini che danzano fino a quarant’anni e alcuni privilegi. Il boom delle scuole di danza è terminato, si sta tornando alla normalità. Mi dà dolore assistere a spettacoli non professionali. Torniamo al problema degli investimenti, delle politiche culturali che, ad esempio, in Francia sono così avanzati. La danza crea un grande indotto ed è ancora capace di innovare”.