Ha scoperto la sua passione all’età di quindici anni. Oggi, Renato Esposito, non ancora quarantenne, è un fotografo professionista. Fin dal liceo artistico e poi all’Accademia di Belle Arti, ha imparato a “rubare” il mestiere, come fanno gli attori e tutti gli artisti, osservando i grandi. Ha abituato il suo “strumento” principale, l’occhio, ad andare oltre l’immagine immediata appena colta per trasformarla in clic .
Renato, usando un gioco di parole, che cosa ha fatto scattare questa passione?
“Più volte mi sono sentito illuminato da eventi e incontri con personalità che hanno lasciato il segno nella mia vita e poi in quella che sarebbe stata la mia professione. Già al liceo, poi all’Accademia, il mondo si è aperto ai mei occhi e un paio di episodi fondamentali, mi hanno determinato a scegliere quest’arte per il mio futuro.
Può dire, dunque, di aver fatto una vera e propria gavetta nel campo. Quali sono stati i suoi maestri?
“Sono cresciuto con le immagini di Fabio Donato, Luciano Ferrara, Mimmo Iodice, per citarne alcuni, poi all’estero ho appreso e seguito tecniche e abilità. Anche il lavoro con le agenzie Controluce e France Press sono state una palestra importante, per imparare a documentare”.
Lei è fotografo di scena, ma non solo.
“Sì, ho lavorato in teatro e quando sono coinvolto in qualche spettacolo mi piace conoscere l’intero mondo: il testo, la recitazione, la messinscena. Ho cominciato da Galleria Toledo con Laura Angiulli, Rosario Squillace e, naturalmente, Cesare Accetta. Calandomi nell’atmosfera teatrale, sento di poter cogliere meglio lo spirito del lavoro finale e quindi scattare foto significative della scena che si sta svolgendo. Ma pubblico pure per varie riviste, tra cui Vanity Fair”.
Lei è nato a San Giorgio, la città di Massimo Troisi. L’ha conosciuto?
“Sì, le nostre famiglie si frequentavano e questi incontri per me sono stati formativi”.
E il cinema come l’ha influenzata?
“Amo il lavoro immenso di Federico Fellini, che ho conosciuto giovanissimo attraverso i cineclub. Le immagini del suo fotografo di set, Tazio Secchiaroli, mi folgorarono. Conobbi così quindi padre Angelo Arpa storico gesuita amico di una vita di Fellini, che lo difese dalla censura e dagli attacchi violenti del Vaticano per il film La Dolce Vita. Rimasi estasiato dai suoi racconti e dagli aneddoti. Le parole di Arpa e quelle immagini mi hanno aperto le porte ad un mondo delle meraviglie”.
Ma lei ha lavorato molto anche fuori Napoli e vive a Firenze.
“Grazie alla collaborazione con l’Accademia di Belle Arti fiorentina, ho realizzato e realizzo alcuni lavori di cui vado fiero, ma a Napoli sento il bisogno di tornare spesso per respirarne l’aria, trovare ispirazione e osservare un mondo ricco di spunti”.
C’è un sodalizio artistico importante per lei?
“Il rapporto di lavoro (e poi di amicizia) con Mimmo Borrelli è uno di questi. Abbiamo un progetto già avviato che dovrebbe continuare. Lui è un grande artista e mi permette di cogliere sfumature e ispirazioni in ogni momento. Ho lavorato con Davide Iodice, altro nome importante della scena, sul suo Pinocchio, un modo diverso di vedere le cose, che mi arricchisce sempre più. Ho frequentato la Compagnia Lombardi-Tiezzi e il Work Center di Pontedera. Queste esperienze mi formano e mi fanno crescere, non solo professionalmente”

Che cosa pensa dell’era dell’immagine?
“Essere sui social e produrre fotonews è diventato indispensabile, ma io amo riflettere prima di scattare. Sono figlio del digitale quindi utilizzo le moderne tecnologie e uso il colore, ma non so se il ritmo che ha preso la nostra vita, ci permetterà di lasciare un segno in cataloghi da consultare per le prossime generazioni. Quel che mi piace è restare negli occhi delle persone”.
L’ultima, ma più importante domanda: che vuol dire per lei fotografare?
“Usando poche parole, direi che è uno stargate, è guardare il mondo senza filtri, osservarlo sempre con meraviglia, come fa un bambino. La foto è una chiave magica, un compagno di viaggio, che mi permette di esistere”.