Manca l’elemento femminile nel Macbettu di Alessandro Serra, riduzione originale in lingua sarda (a cura di di Giovanni Carroni) della tragedia di Shakespeare, di cui ha curato regia, scene e luci. Lady Macbeth non c’è, nè fisicamente: recitano solo uomini, come nel teatro elisabettiano, che come incombere psicologico e devastante.
Una scena nera e cupa a rappresentare il buio della notte e dell’animo, in cui si consumano vendette, tradimenti e assassini, in un clima ancestralmente sardo, con riti carnevaleschi, rumori tipici e danze, che calano in un’atmosfera severa e sanguinaria com’è nell’originale, ma con la magia e il coinvolgimento nei riti antichi di una terra anch’essa dura, antichissima, in cui la Natura è forte e prepotente.
Così si consuma la tragedia del Re Macbeth, assassino e assassinato, in nome di un potere senza tempo e senza luogo.
Un futuo re al quale le streghe (molto caratterizzate secondo i riti della Barbagia) hanno annunciato serenità e vittoria (perché “nessun nato di donna può nuocerti”), almeno fino a quando il bosco non si muoverà. E come potrebbe una foresta camminare? Macbettu è fiducioso, ma la profezia si avvererà e qui Serra si serve di maschere tipiche di sughero per realizzare l’avanzata dei soldati mimetizzati e concludere la vicenda. Non si vedono pugnali che volano, la luce è quasi completamente negata e il fantasma di Banquo avanza sulla tavola imbandita calpestando pane carasau.

Otto bravissimi attori (Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino della compagnia Teatropersona) per questa messinscena originale eppure fedele, pluripremiata, coraggiosa e significativa, segno evidente che un classico come la tragedia del Bardo, possa sempre essere interpretato in modo nuovo, quando i sentimenti, le paure, gli orrori e le ossessioni appartengono all’Uomo.
Grigio della notte, buio di riti, maschere carnevalesche, rumori e grugniti animaleschi, pietre che suonano, streghe. Parche, norne o megere, deformi nell’aspetto, grottesche nei movimenti, che corrono a passettini, girano, rigirano, profetizzando, e che strappano qualche sorriso alla platea. Che resta, però, inchiodata alla poltrona del Teatro Politeama di Napoli, per vivere fino in fondo una storia conosciuta e riconoscibile, pur se in una lingua diversa (ma c’erano i sovratitoli), a tratti comprensibile e fortemente evocativa. “La vita non è che un’ombra che cammina, – scrive Shakespeare per Macbeth – un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla”.