Ha appena ricevuto il Premio Gerardo D’Andrea come miglior autore e regista per la drammaturgia contemporanea, nell’ambito dell’edizione 2024 del Teatro Festival di Positano. Davide Sacco, figlio d’arte, ritira la statuetta nella serata, in cui Isa Danieli fa da madrina.
Davide, che cosa significa questo riconoscimento?
“Provo una forte gratitudine. Il pensiero va a Gerardo, ad Annibale Ruccello, a Enzo Moscato. Con un trait d’union straordinario quale Isa Danieli, che desiderare di più. Parliamo della storia teatrale napoletana. Accanto a questi nomi, potrei citarne tanti altri. Penso a Santanelli, a Calvino, e non solo.
Nomi contemporanei. E i classici?
“Del passato si parla di più. Mi piace la frase molto significativa di Moscato che diceva: ‘ho masticato tutto e poi l’ho vomitato’. Ecco,dunque, questo è un processo che riguarda tutti. L’Opera Buffa per De Simone. Viviani per Eduardo. Conosco bene la tradizione napoletana e vedo la continuità tra ciò che è stato e ciò che è. Noi giovani non possiamo non conoscere gli antichi autori e lo facciamo attraverso lo studio, la ricerca, la lettura. A Napoli non si muore mai, ma si vive nel momento in cui si ha la forza e la sensibilità di ricordare e di ‘rubare’ la lezione.”.
Quale le è stata più utile?
“Quest’anno, oltre a un autore come Moscato, abbiamo perduto un grande regista: Armando Pugliese. Ecco, lui ha rappresentato uno spartiacque nel nostro teatro. Era l’epoca di una primavera teatrale, quando c’era una presa di coscienza reale, che oggi vedo meno”.
Lei è giovane, ma ha già lavorato con tanti attori e registi importanti. Nei primi anni soprattutto napoletani. Oggi, il suo orizzonte è più ampio. Aspetta che Napoli la chiami?
“Credo che ci sia un tempo per tutte le cose. Non credo invece nella geografia, nelle separazioni o nei confini. Napoli è città mitteleuropea. Perciò, per me, non devono esserci caselli o barriere. Mantenendo, naturalmente, le proprie identità. Io non mi sento fuori da Napoli”.
Che cosa ritiene che manchi alla nostra città teatrale?
“Non so, forse un manifesto. Un salotto, in cui artisti della stessa generazione possano incontrarsi e discutere. Ripenso al Masaniello. Porta, Pugliese, De Simone e Rigillo si ritrovarono a parlare di Masaniello perché tutti stavano lavorando sulla sua storia. E nacque un evento”.
Oggi, anziché il salotto, abbiamo la Rete.
“Infatti. Eduardo non doveva confrontarsi con Facebook, con Tick tock o con Internet. Certo, viviamo un tempo diverso, ma secondo me, chi fa teatro deve puntare alla fiducia dello spettatore, raccontare storie del mondo contemporaneo, cercando di emozionare, di coinvolgere, di far giungere a quella presa di coscienza di cui dicevo”.
Il suo ultimo spettacolo è “Amleto”. E’ dunque partito da un classico. Come lo ha realizzato?
“E’ stato un lungo percorso omogeneo sul concetto di patriarcato e dittatura. Ho voluto sfidare me stesso, mettermi alla prova per vedere se sarei riuscito ad esprimermi con il mio linguaggio. E’ una riscrittura del capolavoro shakesperiano, che parla della possibilità di una generazione di adattarsi ai dettami del passato. Un piccolo manifesto”.
Lei dirige con Francesco Montanari il Teatro Manini di Narni e un Festival a Terni. Riesce a fare tutto questo?
“In fondo, sì. Il teatro per me, è luogo di democrazia, di disciplina. Non credo che si possa progettare prima, perché uno spettacolo va costruito insieme con tutte le parti coinvolte. A Narni, c’è un rapporto quasi quotidiano con il nostro pubblico. In questo borgo si sta insieme, cerchiamo di costruire una ‘casa’. In stile anglosassone. E se succede qualcosa di grosso, come una fabbrica che chiude o un episodio di discriminazione, un direttore artistico deve dire la sua. Il teatro è il posto degli spettatori non degli spettacoli. Se ci sono buoni spettatori, allora ci saranno buoni spettacoli”.