La storia si sviluppa sotto gli occhi del pubblico, che ne è testimone. E’ la vicenda di Deborah, protagonista di Una specie di Alaska di Harold Pinter con Sara Bertelà, Orietta Notari, Nicola Pannelli e la regia di Valerio Binasco, in scena da venerdì 23 a domenica 25 al teatro Galleria Toledo di Napoli. Lei apre gli occhi, la luce si accende e il pubblico entra nella vicenda.
Sara, in che modo si è calata in un personaggio che si risveglia dopo ventinove anni di coma?
“Sono ritornata col pensiero ai miei quindici anni, che è l’età che aveva la ragazza prima della malattia. Mi sono concentrata sulla mia parte fanciullesca, non facendo caso al corpo, che è di una donna di quarantacinque anni”.
Che effetto le fa essere in proscenio a contatto diretto con gli spettatori?
“Prima dello spettacolo respiro, mi rilasso e mi preparo al percorso che compirò con i miei compagni. E’ come stare su un filo teso e cercare l’equilibrio per fare il passo successivo. E’ il mio modo d’intendere la recitazione e il nostro metodo di lavoro. Mi nutro del pubblico, tanto che cerco negli occhi di qualcuno in prima fila quelli di mio padre o di Jack, il mio fidanzato, quando parlo di loro”.
Questo testo è ispirato al libro di racconti di Oliver Sacks, da cui fu tratto il celebre omonimo film “Risvegli”, ma punta su tutt’altri temi.
“Sì. Qui non si parla troppo della cura e dell’aspetto medico, quel che è forte è il senso del tempo e della vita. Vivendo ogni attimo con Deborah, ognuno si chiederà che cosa ha fatto negli ultimi propri ventinove anni. E’ una domanda lancinante. Lo spettatore si risveglierà con lei, in un respiro comune. Nessuno sa che cosa Deborah ricorderà del suo passato. Insomma è come essere nella stanza dell’ospedale. Pinter, che rimase colpito dai casi narrati da Sacks, è grandissimo proprio perché ha capito che in teatro erano altri gli argomenti su cui puntare. Sbatte ferocemente in faccia al pubblico la realtà, toccando il cuore di tutti: c’è la paura del lutto, di perdere l’innocenza, l’amore, il desiderio di affermazione, la possibilità di ricominciare a vivere, di riscattare il tempo perduto”.
Si tratta di una tragedia?
“E’ un thriller e una tragedia. In questo spettacolo si ride e si piange. Per l’ingenuità e lo stupore della protagonista che non riesce ad accettare la realtà, tra il medico che la interroga e la sorella che le è stata accanto, ma c’è dentro anche tanta ironia, tanta simpatia. E non manca l’eros. Il suo risveglio alla vita e il desiderio di ritrovare l’amore, le fanno ricordare il suo ragazzo e vive momenti di grande sensualità”.
In che tipo di scenografia si svolge l’azione?
“La regia punta soprattutto sulle emozioni, quindi, la scena è quasi nuda, è una camera d’ospedale, io sono sul letto, mi risveglio, ricordo, parlo, mi stupisco. Insomma, agisco sempre là per tutta la durata”.
Lei ha vinto già numerosi premi. Le Maschere per “Exit” di Paravidino e anche per questa interpretazione ha ottenuto dei riconoscimenti.
“Per “Una specie di Alaska” l’Associazione nazionale critici” mi ha assegnato il premio al percorso artistico per le varie tappe che ho attraversato. Quello che m’interessa di questo mestiere è raccontare storie, cercare la verità come attrice, anche lasciandomi andare ai sentimenti”.