di Alberto Tuzzi
In Giorni perduti, Don (Ray Milland), scrittore appassionato di musica classica e di Shakespeare in crisi d’identità e d’ispirazione, è ormai distrutto dall’alcolismo, nonostante gli sforzi del fratello Wick (Phillip Terry) e della fidanzata Helen (Jane Wyman) che, innamoratissima di Don, lotta con tutte le sue forze per riportarlo ad una vita normale.
In una sorta di precipizio verso il nulla, Don vaga in una New York spettrale, tra squallidi bar e strade desolate, scendendo tutti i gradini dell’abiezione e abbassandosi a qualsiasi espediente per procurarsi del whisky, vivendo anche la terrificante esperienza dell’internamento nel reparto alcolizzati di un ospedale.
Billy Wilder realizza un film scabro e non consolatorio, con protagonista per la prima volta un alcolizzato, dopo che per anni ad Hollywood l’ubriacone è stato rappresentato quasi sempre come personaggio comico.
Il film, girato tra tipici interni hollywoodiani da studio e autentici esterni, mostra brutalmente in bianco e nero una New York vera, assolutamente priva di glamour, grazie anche alla splendida fotografia di John F. Seitz, nel solco di una concezione nuova, più realista, della scenografia e dell’ambientazione dei film, originata dalla visione della realtà del cinema italiano del dopoguerra.
Billy Wilder e Charles Brackett traggono una sceneggiatura dall’eponimo romanzo autobiografico (1944) del giovane autore semisconosciuto Charles Jackson, che trasforma in materia narrativa la sua tragica battaglia contro l’alcolismo che, tra disintossicazioni e ricadute, lo accompagna fino al suicidio, nel 1968.
Il regista non dissimula il proprio cinismo, spietatamente tragico, sia nella scelta dei soggetti, sia nell’attenzione alla realtà sociale. Wilder, viennese, anche se nato nei Carpazi, intellettuale raffinato e profondo, in questo modo innesta nella macchina buonista di Hollywood un po’ dello spirito inquieto e umbratile, tipico dell’arte europea, senza dipingere una folkloristica bohème ma esplorando la totale dissoluzione di un animo umano di fronte alla sua devastante fragilità, alla sua totale acquiescenza alla dipendenza, in una mondo spietato: non a caso il film si apre e si chiude con una panoramica di New York, giungla d’asfalto più che Grande Mela, rigurgitante esseri travagliati ed impauriti, facile preda del demone dell’alcol, come recita la voce fuori campo del protagonista, un grande Ray Milland in una delle sue migliori interpretazioni.
Il regista, allievo (non solo metaforico) del grande Ernst Lubitsch di cui è stato sceneggiatore e aiuto, indaga sulle debolezze umane, che mette a nudo sullo schermo anche grazie a sceneggiatori di razza come Brackett; la sua conoscenza approfondita della macchina-cinema e le sue passate esperienze, anche come giornalista, lo indirizzano verso una doppia e dissacrante indagine dell’animo umano: dapprima con una serie di film drammatici, rappresentando gli istinti peggiori degli individui e poi, successivamente, con la commedia, mostrando cosa si nasconde realmente dietro l’ipocrisia del “Sogno Americano”.
“Giorni perduti”, uno dei tanti capolavori di Wilder, è l’ennesima prova del genio di un regista eclettico e mai scontato, un’opera sontuosa non solo sulla deriva psicologica e affettiva di un essere umano, quasi un saggio clinico sugli effetti dell’alcol sulla psiche e sulla devastazione dei rapporti sociali ma anche una struggente storia d’amore tra Don e Helen, che disperatamente non vuole lasciare che il suo fidanzato sprofondi nell’abisso.
Il film ebbe sette nomination e quattro Oscar nel 1946 (Miglior film, Miglior regia, Migliore attore protagonista, Miglior sceneggiatura non originale), tre Golden Globe e, al Festival di Cannes del 1946, la Palma d’Oro a Billy Wilder e Miglior interpretazione maschile a Ray Milland.