UN TERRIBILE GIOCO AL MASSACRO

Maresa Galli

Come gocce su pietre roventi è l’intenso, sfaccettato testo che Rainer Werner Fassbinder non ha mai messo in scena. Scritto ad appena diciannove anni dal regista tedesco, è diventato film con  François Ozon e spettacolo teatrale con Arnolfo Petri (al teatro Il Primo di Napoli) che ama le sfide della ragione, i testi difficili. La storia, che contiene già in nuce elementi che si ritroveranno ne “Le lacrime amare di Petra von Kant” e “Querelle de Brest”, si snoda attorno al rapporto di coppia tra Leopold, un uomo maturo, sensuale, conscio del potere che esercita sul prossimo, e Franz, un giovane poco più che ventenne con ancora intatti i sogni. Franz, affascinato/plagiato dal crudele, sottile gioco di Leopold (perde con lui ai dadi, perde i suoi progetti, perde se stesso) va a vivere a casa del nuovo amico. Per lui lascia Anna, la fidanzata che un giorno dovrebbe sposare, perché sa di non amarla e sa di non provare piacere nel fare l’amore con lei. Leopold lo circuisce servendosi anche dei suoi incubi, dei suoi desideri repressi. Ciò che sembra liberazione, conquista di sé, si trasforma al contrario in prigione, in perdita di sé, in un rapporto di forza tra “master and slave”, tra dominatore e dominato, marito padrone e “moglie” succube. Quando Leopold rientra dai suoi viaggi di lavoro, finalizzati alla conquista del denaro, sua massima aspirazione, Franz corre a prendergli la valigia, a riscaldare casa, a infilargli le pantofole, a pulire daccapo tappeti e pavimenti… Un gioco al massacro tessuto per stabilire uno spietato, insopportabile esercizio di potere. Da Leopold dipende la vita stessa di Franz che, guarda caso, è buono a far nulla e non trova lavoro. Ben presto la tragedia assume tinte più fosche con l’arrivo delle donne: Anna, l’ex fidanzata di Franz, che reclama un’unione stabile, dei figli, poco importa se con Franz, verrà ammaliata dall’affascinante Leopold, dalla sua sottile cattiveria, dalla sua sicurezza. E lo stesso Leopold, per provare la propria forza e distruggere chi lo ama, porterà con sé, di ritorno da un viaggio, Vera, la sua ex fidanzata, masochista che ama solo la sottomissione. A Franz, distrutto, non rimarrà che il suicidio, liberatorio, compiuto nell’indifferenza della madre avvertita a telefono, di Leopold e delle donne ansiosi solo di correre a letto, nel cinico gioco delle parti.

Un intenso lavoro costruito da Petri, nel duplice ruolo di Leopold e di regista, che ben dirige Maurizio Capuano, Loretta Palo e Autilia Ranieri, bravissima chiusa nel silenzio, capace di parlare solo nell’espressione, nel corpo-automa privo di qualsiasi volontà. Belle le scene a cura di Armando Alovisi, ottima la scelta della colonna sonora con canzoni scolpite nell’immaginario collettivo di una generazione: “Die Schwarze Rose” possiede la grazia di Patty Pravo, “Liebelei” , che ricordiamo nella versione di Raffaella Carrà (“A far l’amore comincia tu”), la struggente “Rain and Tears” di Demis Roussos (Aprodite’s Child) nella versione tedesca.

Sconvolgente attualità di Fassbinder che ha scritto il testo nel ’65 con lucida visionarietà sui sogni che muoiono all’alba, sull’ineluttabilità del vuoto gioco di passioni destinate a soccombere al cinismo dell’uomo.

 

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