Non sono bastati i sedici minuti di applausi – con tanto di standing ovation- al termine della proiezione ufficiale della Bella Addormentata di Bellocchio,

per convincere la giuria del Festival di Venezia che a trionfare quest’anno avrebbe dovuto essere un film “made in Italy”. Infatti, è stato il coreano Kim Ki-Duk a ricevere il tanto ambito Leone d’oro, grazie alla pellicola intitolata Pietà (non a caso, il manifesto richiama la celebre scultura di Michelangelo): la storia di un crudele strozzino che incontra improvvisamente la sua presunta madre diventa – attraverso scene brutali e poetiche al tempo stesso- metafora del capitalismo contemporaneo e delle sue derive più inquietanti.
Il Leone d’argento miglior regia e il Premio Speciale della giuria, invece, sono stati assegnati rispettivamente all’americano Anderson per il film, su una setta religiosa facilmente identificabile in Scientology, dal titolo The Master e al lungometraggio Paradies: Glaube, del regista austriaco Ulrich Seidl, che ritrae la quotidianità di una donna fortemente cattolica. E appare significativo che a conquistare i premi più importanti della kermesse siano state proprio pellicole dai contenuti marcatamente religiosi, a testimonianza dello scontento pressoché generalizzato per una società come quella odierna, sempre più priva di valori.
Oltre alla Bella Addormentata, altri due film in concorso avevano il compito di tenere alta la bandiera italiana: E’ stato il figlio, diretto da Daniele Ciprì, con un brillante Toni Servillo nei panni di un padre siciliano, che passa dal lutto per l’uccisione della figlia al culto della Mercedes, acquistata grazie al risarcimento per la sua morte; e Un giorno speciale di Francesca Comencini, storia dell’incontro, casuale quanto fatale, tra due giovani alle prese con le prime esperienze lavorative.
Tuttavia, l’Italia si è dovuta accontentare di riconoscimenti minori: il Premio Marcello Mastroianni a Fabrizio Falco (che compare sia nel film di Bellocchio sia in quello di Ciprì) e il Premio per la fotografia alla pellicola E’ stato il figlio. Riguardo alle migliori interpretazioni, sia maschile che femminile, la Coppa Volpi è andata rispettivamente a Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix (ex equo) per The Master, e all’israeliana Hadas Yaron per il film Lemale et ha’chalal.
Rimane, dunque, la grande amarezza per gli scarsi risultati ottenuti dal cinema nostrano. Ma ancora più cocente è stata la delusione per il maestro Marco Bellocchio, sul quale tutti avevano puntato, e che invece è tornato a casa a mani vuote: un’opera che affronta con grande rispetto e intelligenza il tema universale dell’eutanasia attraverso un fatto di cronaca nazionale (cioè il caso di Eluana Englaro) avrebbe probabilmente meritato qualcosa in più.
Così si è conclusa la 69esima edizione del Festival di Venezia, tra trionfanti vincitori, immancabili polemiche, tanti film di qualità, ma nessun capolavoro.