A sei anni dalla sua pubblicazione nel 2016, il romanzo breve “La Santa Piccola” di Vincenzo Restivo ha compiuto un passo importante, il salto dalla carta stampata al grande schermo, passando per festival internazionali come Venezia e il Tribeca nell’ultimo anno. L’omonimo film diretto da Silvia Brunelli (dal 1 settembre anche su Netflix) è stato per Restivo, autore e attivista casertano LGBTQ, una delle poche cose positive sviluppatesi durante lockdown e pandemia, insieme all’uscita del suo ultimo libro “Mare Grigio”, già vincitore del Napoli Cultural Classic 2020 e a febbraio 2023 prenotato per Casa Sanremo. “Stare chiusi in casa ci ha privato di sogni e libertà, di spunti per creare, della possibilità di viaggiare ed esplorare, praticamente di tutto quello che serve alla letteratura per essere viva”, ha spiegato nel corso dell’intervista che ci ha rilasciato nella sua Marcianise, poco prima di ripartire per Firenze, dove attualmente, vive, scrive e lavora come docente di lingue e letterature straniere.
Vincenzo, come è nata e si è sviluppata l’idea della “Santa Piccola” e quanto di personale c’è nei suoi personaggi?
“Ho ambientato la storia a Forcella perché è un quartiere che conosco bene, avendolo attraversato a piedi per tutto il mio periodo di studi napoletano, quando ero iscritto all’Orientale di Napoli, dove poi mi sono laureato. Mi colpirono gli scugnizzi, l’atmosfera un po’ claudicante e da lì venne l’idea di una vicenda omosessuale tra due giovanissimi in un contesto difficile per chi sente di essere diverso, non si accetta o vive nella negazione. La miccia in realtà fu il fatto di cronaca tristissimo di Fortuna Loffredo, la bambina uccisa al Parco Verde di Caivano, che però è stata solo un’ispirazione per la figura di questa santa piccola, improvvisamente venerata da tutti in una città in cui sacro e profano sono quasi indissolubili. Il film ha recuperato anche una chiave grottesca rispetto al mio testo e ha trovato un’intuizione felice, ovvero quella di legare la bambina a uno dei due protagonisti, Lino, che è suo fratello. E indubbiamente nei tormenti di Mario, che scopre di essere innamorato del suo migliore amico e prova un’attrazione fortissima, tipicamente adolescenziale, rivedo i miei stessi dubbi e parte del mio percorso personale, che mi ha portato col tempo ad aprirmi in famiglia, con gli amici e a diventare poi consigliere delegato alla cultura per l’associazione RAIN Arcigay Caserta”.
La scrittura in questo senso è stata terapeutica, catartica nella sua vita?
“Assolutamente sì, la narrativa per me è evasione, fuga benefica, e lo è stata sicuramente nella mia infanzia e adolescenza. Ero un ragazzino molto timido, con pochi amici e molte difficoltà di interazioni sociali a scuola e non solo, oggetto di vessazioni omofobe già in tenera età. Sapevo di essere diverso dagli altri maschi miei coetanei, magari non proprio consapevole della mia identità a quell’età, però sentivo la distanza in termine di interessi e passioni, e perciò mi rifugiavo in universi fantastici, amici immaginari da creare con carta e penna, costruendo storie e mondi che mi hanno fatto esordire già alle medie ai primi concorsi letterari”.
E proposito di storie, il suo nickname su instagram, “beautiful thing”, non è un caso, facendo riferimento al titolo di un film britannico a tema LGBTQ?
“Una pellicola che ho adorato e che ho scoperto per la prima volta in vhs, comprata all’epoca non senza timori e imbarazzi alla cassa. Forse quel racconto inglese mi ha insegnato una cosa: solo noi sappiamo quando è il momento giusto per fare coming out nella nostra vita”.