Nel 1914 a Roma, nasceva Anna Maria Ortese, la scrittrice le cui parole si fanno emozione dolorosa. Dopo la sua lunga, singolare carriera, tra l’eco di fantasie e ricordi, è morta a Rapallo all’età di ottantaquattro anni. Sono trascorsi cento anni dalla nascita, e l’anniversario non poteva passare inosservato: in ogni luogo convegni, libri, premi nel ricordo dei suoi passi erranti, della sua scrittura visionaria, sfuggente, tra le voci offese e dolenti dei suoi personaggi.
Ero nella giuria del premio letterario e artistico nominato “L’Iguana” come il titolo di un suo libro, ideato da Esther Basile, Maria Stella Rossi e Lucia Daga e organizzato al Castello di Prata, luogo di grande fascino storico e naturale. E l’iguana si ricordava insieme “è figura piena di pietà e di emozioni, che cela, tra le sue grinze e le sue squame assunte a valore di rughe di donna partecipe e dolente, tutto il pudore di teneri sentimenti e tutta la consapevolezza penosa della sofferenza della vita”. Dopo la proiezione del video “Gli occhiali” di Carlo Damasco, come dimenticare il racconto struggente, tra gli altri del “Mare non bagna Napoli”.
Come non rileggerli tutti e immergersi nelle stagioni e nelle espressioni più alte, nelle atmosfere incantate e malinconiche della Ortese. Guai a inforcare un paio di occhiali, peraltro così agognati da una bambina confusa nello sguardo, ma protetta dalla crudeltà della vita. Attraverso le lenti, le viene svelato un mondo estremo, il cortile fatiscente, miserabili abitazioni, volti deformi e rassegnati: “Eugenia, sempre tenendosi gli occhiali con le mani, andò fino al portone, per guardare fuori, nel vicolo della Cupa. Le gambe le tremavano, le girava la testa, e non provava più nessuna gioia… si era piegata in due e, lamentandosi, vomitava”.
La Ortese con “Il mare non bagna Napoli”, pubblicato da Einaudi nel ’53, si incontra e si scontra in un addio definitivo con la città di Napoli, ferita, uscita a pezzi e dilaniata dalla guerra. Col suo grido sofferto, non riesce ad accettare la realtà, l’orrore delle cose divorate dal tempo e lo “spaesamento” la invade tutta. Scriverà nell’edizione dell’Adelphi del 1994: “Da molto, moltissimo tempo, io detestavo con tutte le mie forze, senza quasi saperlo, la cosiddetta realtà: il meccanismo delle cose che sorgono nel tempo, e dal tempo sono distrutte. Questa realtà era per me incomprensibile e allucinante… Ero chiusa io stessa in quel nero seme del vivere, e perciò – tramite la nevrosi -“gridavo”. Anzi gridai… attribuii alla bellissima città questo spaesamento che era soprattutto mio. Questo orrore – che le attribuii – fu la mia debolezza”.
Il male oscuro di vivere non l’abbandonerà mai e le sue stagioni non saranno felici, trascorreranno nello smarrimento e “ogni sera, in due dita d’acqua, due grosse gocce di pianto.”