Nell’approssimarsi del Natale, rileggo le pagine di Cieli di carta di Maria Orsini Natale, il libro pubblicato da Avagliano nel 2002, dedicato ai presepi e ai pastori della sua infanzia. Mi fanno compagnia i suoi pensieri mentre rivolgo lo sguardo al suo fragile luminoso cielo stellato e alla meraviglia della Natività. Costruire il presepe significava per lei, fissare insieme al sughero e al cartone la speranza e la tolleranza e penso che dipingere quel cielo di carta, le servisse per mostrare i colori del suo animo e in seguito, inconsapevolmente, la bellezza della sua scrittura. Gli adulti coinvolgevano sempre i bambini nell’allestire il presepe e la scrittrice vesuviana ricorda: “questo ci insegnavano, perché su quella ribalta teatrale si rappresentava la compresenza di opposti messi insieme: di neve e primavera, dell’arabo e dell’indiano con il suo turbante, della zingara con il braccialetto alla caviglia e del centurione romano con Pulcinella. Questa colorata zattera di legno, rifugio sempre ospitale, razzista mai, è restata per me isola di attesa che trascende ogni razza, ogni religione”.
E ancora scriveva: “Mi fanno compagnia le figurine di argilla cotta modellata a mano con le faccine ispirate nel segno di una gioia e di uno stupore. I pastori e il presepe sono punti di riferimento, coordinate geografiche nella mappa della mia esistenza”.
E quel tornare indietro a quando eravamo bambini, ci stupisce ed ancora una volta si compie il miracolo. E non è sorprendente che Maria faccia ritornare il passato così vivo in noi e colori il grigio del nostro presente?
Quanno nascette Ninno a Betlemme
ciurettero le pigne e ascette l’uva,
co’ tutto ch’era vierno nascettero
a migliare rose e sciure.
Il presepe era “un riandare all’inizio del nostro tempo, così lontano nell’incommensurabilità delle ore e degli anni”. Quante domande le feci in quella lunga intervista che intitolammo “Il girasole della memoria”.
E l’albero di Natale?
“Anche nella mia casa ormai si prepara, ma non appartiene alla nostra cultura, non alla mia…mi addolora lo scempio degli abeti, la loro lenta agonia addobbati di oro e argento mentre perdono aghi come pianto. Amo molto le piante, è un amore che mi è stato trasmesso per “geni”. Il primo albero di Natale della mia vita è stato quello che, dopo lo sbarco a Salerno nel settembre del ’43, hanno innalzato i soldati americani nel cortile della mia casa requisita”.
Com’era il Natale della tua infanzia?
“La vigilia aveva il profumo, la benedizione dell’incenso e di quella essenza di resina che lietamente raggiungeva ogni angolo della casa. Il menù di quella santa notte era consacrato nella devozione; le pietanze rispettavano il sacrificio, l’attesa religiosa di un evento, quando non si tocca la carne, tramite di spiriti maligni, impura nelle arcaiche credenze: spaghetti con fresco sugo di mare, broccoli, scarole, erbe amare, il cavolo dell’inverno dell’orto e il pesce si vestiva di sacro alloro nel sacrificio della brace”.
E il Natale di oggi?
“Rimbaud scrisse: “aspetto Dio con ghiottoneria”. Tralasciando il più alto significato della frase, penso che oggi questa festa rischi di essere solo meta di ghiottoneria e il resto è silenzio. Senza voler accusare nessuno, deve appartenere a ognuno di noi la recita del mea culpa. Ogni anno il consumismo inesorabilmente avanza…ogni anno il senso del Natale perde qualcosa. Con grave danno della messe di domani, di quelli che crescono e stanno a guardarci”.
“Mentre i grandi segavano, inchiodavano, appiccicavano, e nascevano rocce e precipizi, mentre con la ceralacca fermavano le figurine ognuna nel suo ruolo e al suo posto, ci tenevamo vicini, ghirlandelle trepide intorno a loro, torrentello garrulo che scorreva e s’impigliava nel secchio della colla, nello scaletto, le incastellature di legno, i sugheri e le piccole case di cartone. Ci tenevamo vicini ad aggiustare le zampe alle pecorelle, le ali degli angeli e l’aureola sbilenca alla Madonna… Ci tenevamo vicini”.
Com’è bello quel tenersi vicino, il senso più vero della famiglia.