I limiti del pensiero e la banalità delle parole

Angela Matassa

Ho notato che molto spesso, parlando e scrivendo di spettacoli teatrali, fino a poco fa ci si preoccupava se l’attore o il regista, che proponevano riscritture, adattamenti o riedizioni di testi noti, imitassero o meno l’originale cui si rifacevano. Oggi, l’attenzione dei critici si sofferma, invece, soprattutto sul tradire o non tradire l’originale.

Da parte mia, ritengo che ciò che conta davvero è che, se chi porta in scena un testo classico, moderno, contemporaneo, di metà tempo (!) che sia, realizzi uno spettacolo buono e godibile. Che richiami o meno l’originale è importante soltanto in parte: il valore e la qualità restano al pubblico.

Purtroppo, ci si imbatte spesso in operazioni molto discutibili, addirittura inutili, che non andrebbero neanche prodotte, soprattutto in un periodo di crisi, come quello che stiamo vivendo, in cui autori, registi e compagnie non trovano spazio perché non ancora famosi.

Personalmente, preferisco chi riesce a mettersi in gioco, scrivendo di proprio pugno piuttosto che tradurre in dialetto i grandi classici, trasformare i personaggi, spostare le epoche quado non sia il caso. A meno che il lavoro non lo consenta (si chiamano classici).

In questo caso, credo che chi ha lavorato sodo per portare in scena un nuovo spettacolo di qualità, che parli all’oggi, vada comunque apprezzato. Se lo spettacolo è brutto o insignificante, allora va semplicemente detto.

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