di Giancarlo Giacci
Una Napoli stranamente respingente e fredda accoglie dopo quarant’anni, il rientro a casa di Felice Lasco, ragazzo difficile e a rischio che a sedici anni era scappato all’estero per sfuggire a un destino che sembrava già scritto. Dopo vari spostamenti si era stabilizzato in Egitto dove aveva trovato una realtà che lo aveva accolto senza chiedere nulla e dove aveva creato una sua impresa e si era sposato.
Proprio quando la sua vita sembra finalmente realizzata sente il richiamo fortissimo delle origini e di un passato lasciato in sospeso che lo attendeva. Decide perciò di tornare nella sua Napoli soprattutto per ritrovare l’amore della madre oramai vecchia e di salute precaria.
Dal primo incontro con il suo rione, la Sanità, avverte di essere respinto come un estraneo per il suo strano modo di parlare con cadenza orientale, si accentua così la distanza facendolo sentire un turista. Bravissimo Pierfrancesco Favino che riesce a creare un accento plausibile, dolce, musicale: una vera fusione tra il napoletano e l’arabo, una lingua mediterranea che lentamente, con il passare delle settimane in città, si avvicina sempre più alla sua lingua madre dandogli l’impressione di essere tornato a casa e di essere finalmente accettato. Veramente eccezionale la trasformazione linguistica che inizialmente allontana e poi riavvicina, pochi attori sarebbero capaci di questo cambiamento senza cadere nel ridicolo e nel patetico.
Agli occhi di Felice sembra che nulla sia cambiato in quaranta anni e, come in punta di piedi, ritrova nei suoi ricordi le strade, i vicoli che erano stati il palcoscenico delle sue scorribande con la sua indimenticabile motoleggera Gilera 125 insieme a quel ragazzo, Oreste, che era stato per lui più di un fratello, l’amico da non lasciare mai.
Ritrova la madre sola, in condizioni pietose, costretta a vivere in pochi metri quadrati al piano terra in un ambiente buio e senza aria, invecchiata ma che non l’accusa di averla abbandonata. Ritrova la tenerezza dell’inversione dei ruoli, da bambino la madre lo lavava con amore ed ora lui la lava e l’accudisce con lo stesso amore e tenerezza. In questa scena difficile Aurora Quattrocchi supera se stessa mettendo da parte il pudore di una donna anziana nei confronti del figlio adulto, immedesimandosi completamente nella parte di madre di Felice. La madre appagata dalla vita per il ritorno del figlio sente che il ciclo della sua vita è completo e finalmente trova la sua pace. Delicatissima la mano di Martone nel riprendere la scena con la sua solita eleganza e semplicità
Il rito funebre fa conoscere Felice e il parroco di San Vincenzo don Luigi: un perfetto Francesco Di Leva nel suo personaggio di duro e dolce nello stesso tempo, diviso tra la lotta ai camorristi e l’amore per i suoi ragazzi. Don Luigi un prete di trincea, di prima linea il cui personaggio si rifà nella realtà a padre Antonio Loffredo e a tanti sacerdoti che rischiano la vita per arginare, non solo con le benedizioni e le preghiere, la violenza del male e la sua forza attrattiva nei riguardi dei giovani. Questa violenza è rappresentata da Oreste, il suo vecchio amico, detto nel quartiere O’ malommo (rifacendosi a un boss della vecchia camorra).

Felice finalmente trova in don Luigi non un confessore, ma un amico e una guida che non approva assolutamente la sua decisione di restare a Napoli. Don Luigi capisce che Felice nasconde qualcosa di veramente grave che ha provocato la sua repentina fuga all’estero.
Nella sua adolescenza difficile e bordenline, lo aveva sempre seguito nelle piccole rapine, in scippi andati sempre lisci fino ad una sera quando, nel tentativo di un furto in una casa, in cui non doveva esserci nessuno, Oreste uccide un uomo che cercava di difendersi con una pistola, spaccandogli la testa.
Dopo un mese passato chiuso in casa per il timore di essere arrestato, Felice segue il consiglio di suo zio e parte con lui verso l’Africa lavorando nella stessa impresa edile. Questa fuga diventa stabile, definitiva: quarant’anni dedicati solo al lavoro e all’integrazione nel mondo musulmano che lo accoglie.
Felice, maturo e realizzato, ritorna alla Sanità, alla sua giovinezza dove vorrebbe ritrovare il suo amico Oreste, che invece ora è un piccolo boss di quartiere temuto ed odiato da tutti. Il tempo è passato, le strade percorse dai due amici divergono inesorabilmente e portano ad una fine già scritta perché Oreste non avrebbe potuto vivere con il terrore che Felice nella sua ingenuità potesse raccontare la loro storia, quella della terribile notte di sangue, Felice non poteva essere più un amico fedele ma solo un potenziale nemico, una mina vagante.
Un personaggio diverso, che accoglie bene Felice, è un vecchio amico della madre allora guantaia, un bravissimo Nello Mascia, perfetto nel suo personaggio di uomo onesto e lavoratore che fa da contraltare alla indifferenza del quartiere. Raffaele gli ricorda fatti antichi quando lavorava come garzone nel laboratorio della madre di cui era segretamente innamorato. Tra i due si crea immediatamente un feeling di fiducia e di ammirazione al punto che il protagonista dice “sarei stato felice di averti avuto come padre”.
Questo film, pur svolgendosi in un ambiente violento, è una storia sull’amicizia, in una Napoli dove sembra che niente è cambiato e non ne ha speranza, ma che invece ha il seme del possibile cambiamento in don Luigi, ma principalmente nei suoi ragazzi dell’orchestra sinfonica e della “Paranza” che nella realtà è riuscita con fondi Europei ed Italiani a riaprire le Catacombe di San Gennaro, trasformando una passione in un lavoro stabile e in tante altre realtà positive che stanno nascendo.
Martone in questo film supera se stesso, partendo da un romanzo un po’ dimenticato e stupendo di Ermanno Rea del 2016 “Nostalgia” e grazie all’ottima sceneggiatura scritta insieme a Ippolita Di Majo, riesce a portare sullo schermo fedelmente le atmosfere, i tempi, i rumori, gli odori, dandogli però nuova vita. E’ riuscito ad entrare nella Sanità, non come il solito regista seriale di genere Gomorra, estraneo, che prende dai luoghi senza dare nulla, ma ha chiesto la collaborazione del quartiere senza usare comparse o figuranti estranei, infatti nei crediti finali lo schermo si riempie magicamente di nomi, tantissimi nomi che sembrano non finire mai di tutte le persone che hanno contribuito alla realizzazione dell’opera al punto che sembra il finale di un film peplum alla Cecil B. de Mille anni Cinquanta.
Riuscitissima pellicola, da non perdere anche da parte di chi non sopporta più le serie di camorra violente e ripetitive girate a Napoli e realizzate esclusivamente per motivi commerciali.
Assolutamente da vedere ma logicamente al Cinema