Quest’anno ha fatto molto parlare di sé un film sulla Shoah che non ha mostrato mai, nemmeno per un secondo, il campo di sterminio di Auschwitz dal suo interno, ovvero La Zona di Interesse di Jonathan Glazier. Il nostro Gianni Amelio con Campo di Battaglia, in concorso all’ultimo Festival di Venezia, ha operato una scelta simile, e altrettanto potente nell’esito finale: far sentire tutta l’atrocità della Prima Guerra Mondiale, senza rappresentare nemmeno uno scontro o una battaglia sul grande schermo.
UN PRIMO TEMPO DI FERITI E MUTILATI
Eccezion fatta per le primissime immagini di cumuli di cadaveri nelle trincee italiane, Campo di Battaglia è un film sulla Grande Guerra che, a dispetto del nome, su quel campo non ci mette mai davvero piede. E non ce n’è bisogno. L’orrore del primo conflitto mondiale emerge subito sulle barelle e nei letti dell’ospedale militare veneto che accoglie i feriti e i mutilati, per usare un eufemismo.
L’approccio di Stefano, medico militare interpretato dall’attore Gabriel Montesi, è inflessibile e spartano, rigido oltre ogni misura, venendo del resto dall’esercito. Più umano, silente e disincantato verso la guerra risulta invece Giulio, ritratto da Alessandro Borghi, misurato nella sua interpretazione e nella parlata veneta.
È lui quello che dà una mano a un soldato siciliano, invano, pur di non farlo tornare al fronte; o che si lascia ingannare da chi fingeva delirio, follia e shock cerebrale per evitare di indossare di nuovo l’elmetto e imbracciare il fucile contro gli austriaci. Potente nel racconto straziante di corpi sfregiati, visi devastati, arti amputati e sanguinolenti, la prima abbondante mezz’ora di film dice già tutto sulla carneficina che si sta consumando nel NordEst per rivendicare le terre irredente, Trieste e Trento.
L’ARRIVO DELLA MISTERIOSA EPIDEMIA SUL CAMPO DI BATTAGLIA
Come se non bastasse, su un esercito provato e sulla popolazione locale stremata dai combattimenti e dalla povertà, si abbattè quella che sarebbe diventata la prima pandemia del XX secolo: l’Influenza Spagnola, con più vittime globali persino della peste nera del Trecento. Inizialmente si pensava fosse circoscritta alle milizie e alle cattive condizioni igieniche in cui versavano le linee del fronte, ma le voci insistenti dell’epidemia partita dalla Spagna neutrale – e che aveva colpito persino il Re spagnolo – iniziarono ad allarmare sia Giulio che Stefano.
Ma non il comando militare, dedicato totalmente alla causa nazionalista fino alla vittoria contro il nemico austroungarico. La sottovalutazione del pericolo epidemico ha un sinistro eco di attualità recente, la visione delle prime mascherine di tessuto di medici e infermieri tra i malati di polmonite fa il resto, richiamando l’esperienza più dura del Covid-19.
IL SECONDO TEMPO E LA POLEMICA POLITICA DI BORGHI
Il secondo tempo di Campo di Battaglia sposta così l’attenzione sulla nuova tegola precipitata sul Regno d’Italia di inizio Novecento, rallentando e dissipando la carica di pathos che aveva accumulato nella prima parte. Con un finale debole, seppur imbevuto di una leggera speranza di fronte alla domanda candida e ingenua di un piccolo civile ammalatosi di polmonite.
Non a caso le generazioni più colpite dalla Spagnola furono proprio quelle giovani, a differenza dei morbi del passato che colpivano i più anziani: un campanello d’allarme inascoltato al pari del grido di dolore che veniva dal Piave e dal Carso. E allora non era certamente patriottico, giusto per inserirci nelle osservazioni personali di Alessandro Borghi, intervistato con Amelio in Laguna, sul senso di nazione e di appartenenza alla patria nel momento storico che stiamo vivendo.